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Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

La grande occasione del NO

VOTARE NO È LA GRANDE OCCASIONE PER BATTERE IL POPULISMO E CAMBIARE LA POLITICA

19 settembre 2020

Come puntualmente capita in ogni referendum, via via che ci si avvicina alla consultazione il merito del quesito perde valore mentre appaiono sempre più evidenti le ragioni politiche che sottendono il voto e le conseguenze che da esso ne derivano. Quello sulla riduzione del numero dei parlamentari su cui siamo chiamati ad esprimerci non fa eccezione, anzi. Dunque, le domande più gettonate in queste ore di vigilia sono: quali partiti e leader politici hanno più da guadagnare o da perdere dal prevalere del Sì o del NO? La vita del governo è destinata ad essere influenzata, e in che modo, dall’esito del referendum? E ai perdenti, siano essi di governo o di opposizione, ci sono alternative possibili? Proviamo a rispondere a questi interrogativi, cercando di capire cosa è meglio che accada per il bene del Paese. 

Il primo quesito prevede una risposta semplice e una seconda più articolata. Formalmente, considerato che soltanto il 3% dei parlamentari in aula ha votato contro il taglio, se dovesse prevalere il Sì vincerebbero (quasi) tutti e di conseguenza se dovesse prevalere il NO perderebbero (quasi) tutti. In realtà, quel 97% che l’ha votata si divide a sua volta in almeno tre categorie: i padri della riforma, gli aderenti giocoforza – per pavidità e per convenienze varie – e i pentiti. I primi sono soprattutto i 5stelle, ma anche Salvini e in misura leggermente minore la Meloni, tra i secondi spiccano quelli del Pd e di Forza Italia, tra i terzi ci sono tutti coloro che prima hanno firmato affinché il referendum si tenesse e poi hanno ingrossato le fila dell’esercito del NO – perché tale è diventato in queste ultime settimane – anche a costo di marcare un dissenso esplicito alle indicazioni ufficiali dei rispettivi partiti. È il caso del lungo elenco, ricco di nomi di prestigio, dei Democrat che hanno fatto sapere di votare NO – da Prodi a Veltroni per tagliar corto – ma anche di un leghista importante come Giorgetti, che si porta dietro moltissimi anche se silenti dirigenti e parlamentari, di Crosetto tra i Fratelli d’Italia, dei tantissimi berlusconiani (è molto probabile che anche il Cavaliere voterà NO) che ascoltano i Brunetta, i Cangini, i Baldelli. Ho motivo di credere che persino non pochi dei dirigenti e parlamentari penstastellati, nel segreto dell’urna, voteranno NO, non fosse altro per pure ragioni di sopravvivenza.

Tuttavia, se questo è il quadro sostanziale, così diverso da quello formale, in termini percettivo-mediatici e in termini politici è facile prevedere che saranno Di Maio e Salvini i veri vincenti o i sonori sconfitti del voto referendario: nel primo caso si impossesseranno del prevalere dei Sì più e meglio degli altri, recuperando così una presa sulle rispettive forze politiche che è andata scemando; nel secondo caso, specularmente, saranno coloro che pagheranno il prezzo più alto, rischiando il ministro degli Esteri di ritrovarsi tutte sul suo conto le molte ragioni di crisi del movimento, e il segretario leghista di ritrovarsi in minoranza (anche per l’effetto Zaia, accreditato di una vittoria schiacciante in Veneto che inevitabilmente lo proietta sulla scena nazionale) in un partito di cui fino a poco tempo sembrava essere il padrone assoluto. Viceversa, Zingaretti sarà comunque perdente: se passerà il Sì non potrà essere lui – che guida un partito che in parlamento tre volte su quattro ha votato contro il taglio e alla fine l’ha fatto passare in nome dell’alleanza di governo con i 5stelle, basata su una concezione sbagliata e autolesionista – a prendere in mano il vessillo della vittoria, se vincerà il NO (ma anche se pur perdendo, ottenesse un risultato lusinghiero) gli sarà rinfacciato di aver fatto una scelta elettoralmente e/o politicamente fallimentare. Ed è facile immaginare che dentro il Pd si arriverà alla resa dei conti tra chi interpreta l’essere al governo con i grillini uno stato di necessità e un puro accidente della storia e chi invece vuole (o voleva, da martedì in poi) un’alleanza organica, secondo i dettami dello stratega (sic) Bettini.

Ma in tutto questo l’avvocato Conte come si colloca? E che fine è destinato a fare il suo governo? Se avete notato, il pur facondo presidente del Consiglio non solo si è ben guardato dal mettere il becco nella campagna referendaria – salvo dichiarare che voterà Sì – ma si è proprio inabissato, dopo mesi di presenzialismo urticante, per giocare la carta dell’indipendente. Come a dire: ma perché evocate Draghi, ci sono qui io. Quel che conta, però, è l’orientamento dell’elettorato non tanto o solo verso di lui, quanto nei confronti dell’esecutivo nel suo insieme, specie alla luce di come sono state gestite e si stanno gestendo le partite principali del dopo lockdown: il riavvio delle attività economiche, la riapertura delle scuole, le modalità di approccio alle risorse del Ricovery Fund. Io credo che la somma tra gli italiani che sono nettamente scontenti e quelli che pur essendolo hanno la preoccupazione di cosa possa venire dopo se Conte cadesse, forma la grande maggioranza dei cittadini. Ed è proprio da questa seconda categoria di cittadini, quelli del “no, ma”, che dipende l’esito del referendum. Credo che sia corretto prevedere che se andranno a votare, specie nelle regioni non coinvolte dal voto amministrativo, lo faranno perché in loro il sentimento di rivalsa verso il governo e i suoi dilettanteschi protagonisti (in primis il disastroso ministro Azzolina) avrà prevalso su ogni altra pulsione, e dunque voteranno in prevalenza NO. Altrimenti è probabile che restino a casa, e una scarsa affluenza favorirebbe il Sì, verosimilmente destinato a prevalere nelle sette regioni dove alle urne ci si reca prima di tutto per il voto regionale.

Restano le domande: questo governo è destinato a cadere? E ha un’alternativa? Premesso che un pezzo della risposta dipende dall’esito del voto regionale, l’influenza del referendum sarà comunque decisiva. Se i Sì vincessero con largo vantaggio, avremmo consolidata la maggioranza, ma al rafforzamento di Di Maio corrisponderebbe un indebolimento di Conte – i due sono l’uno contro l’altro, armati – che potrebbe indurre a cambiamenti nell’esecutivo. Salvini e Meloni cavalcherebbero il risultato, sostenendo che il parlamento sarebbe delegittimato dal fatto che i cittadini lo vogliono in versione slim, ma per il Quirinale non sarebbe un motivo sufficiente per sciogliere le camere, considerate anche le emergenze da affrontare e gli impegni assunti in sede europea che richiedono continuità. Viceversa, se a vincere fossero i NO, o se perdessero ma di misura, la maggioranza verrebbe travolta, e il governo di conseguenza. Solo che a subirne il contraccolpo sarebbe anche l’opposizione, e Salvini in particolare. Per questo, oltre che per i motivi emergenziali ed europei già citati, l’esito difficilmente sarebbero le elezioni anticipate. Anche perché il “fronte dei dissidenti”, cioè gli esponenti politici che hanno votato NO in dissenso dal loro partito, e che sarebbero sugli scudi, creerebbe le condizioni per un accordo politico trasversale, dove i moderati e i riformisti fanno premio sui populisti. È ovviamente prematuro dire che governo ne verrebbe fuori e chi lo guiderebbe, ma di certo non sarebbe Conte. Parallelamente nei partiti perdenti – 5stelle, Lega e Pd – si aprirebbero dinamiche interne nuove, facendo emergere figure e linee politiche idonee a intercettare i cittadini del NO. Inoltre, se il NO avrà diversi milioni di voti – sufficienti o meno che siano a battere il Sì – è ragionevole pensare, e sperare, che possa finalmente prendere corpo quello che io ho chiamato, da molto tempo, il “partito che non c’è”. Perché sarà evidente anche ai ciechi che quel NO così forte, espresso in barba alla stragrandissima maggioranza delle forze parlamentari, richiede una rappresentanza politica e che (quasi) nessuno oggi può offrire, se non una nuova forza o chi tra quelle esistenti avrà la capacità e l’umiltà per rinnovarsi profondamente.

Ecco perché non ci si deve spaventare di fronte alla constatazione che mancano le alternative. È vero, se si ragiona sull’esistente, non c’è alternativa, e il populismo del centro-destra, per di più condito di stupido sovranismo, non sarebbe meno peggiore di quello espresso da questa maggioranza. Ma cari concittadini, quando la politica non è in grado di darcele, le alternative che vorremmo, occorre fare scelte che la obblighino a offrirle, le alternative, cambiando le leadership e i contenuti dei partiti esistenti e/o creandone di nuovi. E quale migliore occasione è votare NO ad una riforma costituzionale che confonde la qualità della classe politica e delle istituzioni, che certo va radicalmente cambiata, con la quantità dei suoi componenti, e che per di più viene lasciata incompiuta perché priva sia di una visione organica di riforma sia di modifiche conseguenti della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari? È vero, le ragioni politiche per andare ai seggi referendari e votare NO sovrastano quelle di merito, perché l’occasione di dare un calcio nel sedere al populismo, di destra o di sinistra che sia, è troppo importante. È decisiva per rimettere in moto il nostro futuro.

Tutti si aspettano una scarsa affluenza e una vittoria schiacciante del Sì. Ma le cose sono cambiate nelle ultime settimane, la coscienza civile del Paese si è risvegliata. Ora è chiamata a dare una grande dimostrazione di vitalità e coraggio.

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