ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Se questa è la fase 2 meglio pensare alla fase 3

SE QUESTA È LA FASE2 PENSIAMO SUBITO ALLA FASE3 CON SCELTE STRATEGICHE E NUOVA CLASSE DIRIGENTE

08 maggio 2020

Avete presente il cosiddetto Milleproroghe? Ecco, il decreto che doveva accompagnare la riapertura del Paese dopo la fine del lockdown – chiamato inizialmente Aprile, ora ribattezzato Maggio, e speriamo di fermarci qui – e che non è ancora pronto, assomiglia maledettamente a quel provvedimento omnibus diventato negli anni una delle peggiori abitudini della legislazione italica. Infatti, a guardare le quasi 800 pagine di bozze che girano da un ministero all’altro, c’è dentro di tutto: mille mini-provvedimenti, altrettanti rivoli di spesa che compongono i (si presume) 55 miliardi complessivi di manovra. Dentro non c’è un’idea forte, se non quello di distribuire risorse – prima di tutto sulla carta, come è stato per il decreto liquidità, poi si vedrà – un po’ a tutti. Tanta spesa corrente, poca spesa in conto capitale, zero investimenti strategici. A ben pensarci, è lo stesso tratto distintivo delle manovre finanziarie di tutti i governi degli ultimi anni, da Renzi in poi. Prima si dava meno e ci si scannava politicamente su quel (relativamente) poco che c’era, perché i vincoli europei impedivano di andare oltre una certa soglia di deficit. Ora si mette sul tavolo molto di più – e ci si scanna, sempre dentro la maggioranza, allo stesso modo – perché l’emergenza ha fatto venir meno le soglie di deficit e di debito (momentaneamente, si badi bene), ma la logica è la stessa: darli 80 euro di Renzi al reddito di cittadinanza del Conte1, dall’Iva al 4% su pannolini ed assorbenti del Conte2 ai 500 euro di bonus per la bicicletta elettrica del Conte3 (quello dei Dpcm), tanto per dirne una.
 
Intendiamoci, mai come ora interventi di sostegno e di sollievo sono necessari. Ma andrebbe fatta una distinzione tra chi ha davvero bisogno – chi si mette in fila davanti agli sportelli del monte pegni o chi aspetta il cibo della Caritas è certamente indigente – e chi pur in difficoltà può tirare avanti, per il semplice motivo che siamo un paese troppo indebitato (parlo di debito pubblico) e con troppo sommerso per poterci permettere un intervento a pioggia indistinto. Non solo. Un conto sono gli interventi anti-povertà (a proposito, ma Di Maio non l’aveva abolita?), un altro il sostegno ai consumi. Per non parlare, poi, della distinzione che occorre fare tra aiuti alle persone e alle famiglie (per necessità o per sostegno della domanda) e gli interventi a favore delle imprese e del sistema economico nel suo complesso. Mettere insieme le tre cose non aiuta a profilare bene i target (ricordiamoci quante domande in meno del preventivato hanno ricevuto reddito di cittadinanza e quota 100), ad agire con rapidità e semplicità, a centrare gli obiettivi. Se poi si aggiungono altre cose, come mettere una trentina di commissari tra concessioni autostradali e altre opere pubbliche, o varare una sorta di sanatoria edilizia, questo decreto diventa un indigeribile frullato di provvedimenti.
 
La verità è che gli interventi di welfare dovevano essere predisposti e messi in atto durante il lockdown, quelli di sostegno per le micro-attività commerciali e dei settori minori bloccate dalla serrata anti-Covid (bar, parrucchieri, colf, persone di servizio, ecc.) avrebbero dovuto coincidere con il momento della riapertura (il 4 maggio). Mentre tutto un altro capitolo di intervento deve riguardare le imprese. Qui occorre distinguere i bisogni sia sulla scala del tempo – fase2 e fase3 – sia lungo l’asse delle diversità, intese per dimensione, comparto, mercati. Le esigenze delle industrie manifatturiere medio-grandi, e anche più piccole ma comunque inserite nelle filiere internazionali e con mercati di sbocco diversificati, sono sicuramente diverse da quelle delle pmi con il solo mercato nazionale a disposizione, che a loro volta andrebbero distinte tra quelle rimaste analogiche e scarsamente indirizzate all’innovazione tecnologica, e quelle che hanno almeno messo il naso nella dimensione 4.0. E la stessa distinzione, sia per dimensioni che per valore aggiunto, va fatta nel campo dei servizi – ancor più vasto e diversificato dell’industria – dove c’è il terziario povero, per contenuti e tipologie di lavoro, e quello ad alto valore, fortemente integrato con l’industria di cui è addendo indispensabile. Infine ci sono settori, come per esempio la filiera agro-alimentare (dai campi alla distribuzione), che richiedono interventi molto specifici e coraggiosi – o si regolarizzano, e in modo strutturale, i lavoratori esteri che assicurano la cura dei campi e la raccolta di frutta e verdura, o si decide che il reddito di cittadinanza deve coincidere con l’impegno a fare “certi lavori” fin qui rifiutati dagli italiani – e altri, come il turismo (con l’indotto il 15% del pil), che rischiano di rimanere bloccati ben oltre la fine del lockdown e che devono in qualche modo essere ripensati, tanto da richiedere la dichiarazione di stato di emergenza (l’idea lanciata nella mia War Room con operatori del settore e la sottosegretaria Bonaccorsi è stata di separare il turismo dai beni culturali e farne un ministero a parte, o in alternativa di nominare un commissario ad hoc).
 
Ma tutto questo avrebbe richiesto, e tuttora richiede, di definire a monte quali scelte strategiche di politica economica s’intendono fare, e in quale contesto di politica di bilancio vanno collocate. Per due motivi tra loro interconnessi. Prima di tutto perché occorre scegliere se sostenere i consumi (e se farlo distribuendo soldi o usando la leva fiscale) o se privilegiare gli investimenti (e anche qui scegliendo tra una drastica riduzione delle tasse sulle imprese sperando che i risparmi si tramutino in impieghi) e investimenti pubblici diretti. E poi perché deve essere chiaro che tutto, per sommatoria, non è possibile fare. Altrimenti il debito, già destinato come minimo a portarsi intorno al 160% del pil, esploderà e diventerà impossibile la sua sostenibilità sui mercati finanziari. Come insegna Keynes (non il tedesco Schäuble o l’olandese Rutte) non è attraverso illimitati e indiscriminati aumenti della spesa pubblica corrente in deficit che si stimola la crescita dell’economia o si arresta la sua caduta recessiva. Certo, in questo momento occorre spendere, ma per un paese già fortemente indebitato come il nostro il farlo con giudizio è condizione indispensabile per non morire di default anziché di pandemia e/o di carestia. Va trovato un giusto mix tra quantità e qualità della spesa, sapendo che tra i due valori c’è un rapporto direttamente proporzionale: tanta è maggiore la qualità della spesa, tanto più alti potranno essere i livelli sopportabili di deficit e debito, e viceversa.
 
Va detto con chiarezza agli italiani che davanti a noi abbiamo sostanzialmente tre strade da poter imboccare: quella dell’assistenzialismo diffuso e della statalizzazione delle realtà economiche in crisi – che nella sostanza sembra essere la via scelta da Conte su spinta dei 5stelle e con un imbarazzante livello di acquiescenza del Pd – quella neo-liberista basata sul taglio delle tasse e la deregulation – che Salvini ha fatto propria senza spiegare come si possa conciliare con il suo sovranismo anti-europeista – e la strada della programmazione dello sviluppo, che prevede investimenti pubblici non per mantenere in piedi il vecchio, ma per costruire un nuovo modello di crescita attraverso una politica industriale che preveda per lo Stato il ruolo del decisore strategico più che del padrone, come bene hanno spiegato ultimamente Romano Prodi e Giorgio La Malfa. C’è poi una strada parallela a queste, sicuramente alla seconda e terza, che a mio avviso andrebbe percorsa comunque, che è quella della semplificazione burocratica, della regolamentazione leggera (autocertificazioni), della radicale riscrittura del codice degli appalti e di tutte le riforme che sono necessarie per mettere fine alla “dittatura giudiziaria” in corso da quasi trent’anni. Rendere più esplicite e ricche di dettagli queste diverse scelte e poi creare le condizioni per scegliere prima che si arrivi alla fase3 è altrettanto indispensabile di quanto sia provvedere a dare soccorso a chi ne ha bisogno nella fase2 della riapertura.
 
Naturalmente, non mi sfugge che per farlo occorrerebbe avere un esecutivo non solo in grado di decidere, ma anche capace di farlo (nel senso di avere coscienza della portata dei problemi e disporre di cultura di governo che fornisca soluzioni adeguate), come pure un parlamento e forze politiche che fossero idonee a sviluppare un dibattito fecondo intorno alle scelte di strategiche di fondo, anziché perdersi in discussioni strumentali e marginali. E che invece non abbiamo nessuna di queste condizioni. Ma nel paese, tra le forze economiche, le competenze manageriali e le energie intellettuali, in questi mesi si è sviluppata una discussione come da tempo non avveniva, anzi si è addirittura scatenata una corsa alla progettualità – scrivere documenti di analisi, elaborare proposte, preparare paper – che non ho difficoltà a definire insperata e molto incoraggiante. Il successo che sta avendo la mia War Room – mi sia consentita questa poco elegante autocitazione – e la community che intorno ad essa si è andata creando, ne sono una testimonianza concreta.
 
Certo, c’è uno iato incolmabile tra questo fermento e il governo – che poi in questa fase è solo Palazzo Chigi e il Tesoro – che non è sanato, e non per colpa loro, dalle tante task force create in questi mesi con il solo intento di far credere ciò che non è, e cioè che intorno a Conte e a suo supporto si sia riunita il meglio dell’intellighenzia nazionale. Ma quando la recessione comincerà a mostrare tutta la sua dimensione e dirompenza epocale e di conseguenza la crisi sociale non potrà che scoppiare, allora in questo fermento si dovrà attingere a piene mani se si vorrà salvare l’Italia dalla catastrofe. È venuto il momento di formare una nuova classe dirigente. Ora o mai più.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.