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L'editoriale di TerzaRepubblica

Appello al Capo dello Stato

L’ITALIA È SULL’ORLO DEL BARATRO, MATTARELLA È LA NOSTRA ULTIMA SPERANZA

23 marzo 2020

Adesso basta! Chi mi segue in questa newsletter sa che finora ho dominato il mio istinto di ribellione, sforzandomi di essere costruttivo e propositivo. E chi mi conosce personalmente sa con quanto scrupolo mi sia adeguato alle disposizioni – sia nella mia vita privata sia in quella professionale – pur non condividendole, almeno in parte, e soprattutto pur avendo orrore delle modalità con le quali sono state via via assunte e imposte al Paese. Ma c’è un limite al senso di responsabilità, e scatta quando il silenzio ti costringe a corresponsabilità che la tua coscienza e la tua intelligenza non ti consentono di condividere. Sia chiaro, non intendo invitare, né me stesso né gli altri, alla disobbedienza civile. Assolutamente. Ma prendermi la libertà di dire fino in fondo ciò che penso, questo sì, è un diritto – e un dovere – cui non intendo rinunciare. Fatta questa (necessaria) premessa, veniamo al dunque.

Mi rivolgo, con la deferenza dovuta e la stima personale che gli porto, al Capo dello Stato.

Caro Presidente Mattarella, la situazione è tragica. Lo è, ovviamente, per i morti che questa guerra batteriologica ha prodotto, per gli ammalati, per i loro cari. Lo è per chi lavora in condizioni estreme, di pericolo, di fatica, di frustrazione. Lo è per i tanti volontari. Ma lo è – non meno – per quello che ci si prospetta. Sul piano economico, per le imprese e per i lavoratori, dipendenti o autonomi che siano; sul piano della finanza pubblica e quindi della nostra permanenza nell’Europa dell’euro; sul piano della convivenza civile, che rischia di saltare se lo stato di costrizione si dovesse prolungare oltre il mese di aprile, e della tensione sociale, che esploderà non appena saranno evidenti le conseguenze economiche dell’emergenza che stiamo vivendo e del modo in cui è stata gestita (si fa per dire). E, attenzione, perfino sul piano della tenuta della democrazia.

È inutile discutere adesso di quando (ben prima) e di come (usando la razionalità, non l’emotività) andava affrontato il manifestarsi della vicenda e le dinamiche che l’hanno fatta diventare una emergenza. A mio giudizio è del tutto mancata sia la capacità di analisi della situazione, sia il metodo con cui affrontarla. Ma lasciamo stare. Quel che importa, ora, è stabilire quale sia la strategia da usare da adesso in avanti, sul piano sanitario e su quello economico, due piani che fin qui si sono voluti considerare separati quando non contrapposti, e che invece sono e non possono che essere due facce della stessa medaglia (la sopravvivenza). Ma non possiamo fare una scelta consapevole se prima non stabiliamo con chiarezza a quale delle tre grandi scuole di pensiero che si confrontano nel mondo su come fronteggiare il Covid-19 abbiamo aderito, e perché: chiusura totale fino all’eliminazione del contagio; quarantena assoluta solo per circoscritte aree geografiche maggiormente esposte e per gli anziani (che sono enormemente più esposti degli under 70 o 60), e conseguimento di quella che si definisce con un’orrenda espressione “immunità di gregge”; mappatura su vasta scala della popolazione e controllo costante dei contagiati attraverso sistemi di geolocalizzazione. Tutte hanno ovviamente pro e contro, ma sono accomunate da una cosa: ne va scelta una con consapevolezza e convinzione, senza incertezze né tentennamenti, avendo cura di non bypassare i processi decisionali democratici (ancorché accelerati) e soprattutto di rendere edotti i cittadini, spiegando loro il perché delle scelte fatte, indicando quali sono gli obiettivi ma senza trascurare di esplicitare i rischi che si corrono (non quelli del contagio, ma delle conseguenze della strategia adottata). 

Invece, il Parlamento – che già stava facendo ogni sforzo per dimostrare la sua inettitudine – è praticamente inesistente, il Governo nella sua collegialità è apparso una pura formalità, i partiti e i leader politici sono scomparsi (inutile dire meno male, perché invece sarebbe importante che ci mettessero la faccia). Tutto è parso ricondursi e riassumersi nella figura del presidente del Consiglio – e già questa è una forzatura – che per di più è parso debole, frastornato, in balia di presidenti di Regione e sindaci. Un premier (costituzionalmente parlando non lo è, ma ha fatto finta di esserlo) che è stato al contempo causa ed effetto dell’autoconvincimento collettivo secondo cui “fermare tutto” sarebbe stato l’unica soluzione. Senza peraltro sapere come, vista la devastante quantità di provvedimenti presi in 50 giorni: una decina tra decreti del governo e Dpcm, decine di ordinanze e circolari del ministero della Salute, più qualcuna di Tesoro, Giustizia, Interni, Difesa e PA, circa un centinaio di ordinanze regionali e provinciali, più quelle non calcolabili comunali e le infinite circolari esplicative (?) di tutti gli enti pubblici. E, soprattutto, senza sapere per quanto tempo, visto che le scadenze indicate erano fin da subito definite indicative e che negli ultimi decreti neppure erano indicate. Per non parlare del modo con cui tutto questo è stato comunicato ai cittadini. Per tutti valga l’ultima esternazione televisiva – ma fatta via Facebook, cioè da un canale americano – di Conte, a tarda sera di sabato (dopo molto rinvii) per dire di un provvedimento previsto per il lunedì di cui (come al solito) non esisteva il testo formale. Doveva essere un churchilliano “discorso alla nazione”, e invece è venuto fuori un compitino zeppo di retorica letto senza alcun carisma – ma benedetto iddio, come si fa a leggere una cosa che dovrebbe venirti da dentro, se vuoi che i tuoi concittadini capiscano e ti seguano?! – che ha ulteriormente incrementato angosce, paure e incertezze di cui già tutti gli italiani sono preda. Niente, se non il moralismo con cui si cerca di colpevolizzare i comportamenti individuali (lo so, le persone vanno indotte ad essere virtuose, ma non si ottiene certo questo risultato auspicando e stigmatizzando, ma essendo chiari e netti).

Il Paese ha bisogno di sapere dove stiamo andando e soprattutto di capire quali sono e saranno le conseguenze delle scelte fatte. Deduciamo dalla progressiva “chiusura totale” cui l’Italia è stata sottoposta che abbiamo imboccato la prima delle tre strade di cui parlavo prima, ma: a) non è stato detto con chiarezza, tanto che spesso saltano fuori scelte alternative (il Veneto, per esempio, ha adottato in parte anche l’opzione tre, quella che si suole ricondurre alla Corea del Sud, ma senza quella efficacia e ponendo un problema, è cioè che in una situazione del genere possa esserci un far west regionale di indirizzi diversi); b) si sono sottaciute le conseguenze di questa opzione; c) non si è avuto il coraggio di prospettare i tempi della “reclusione forzata”, sapendo che molti modelli matematici che analizzano le curve di espansione del virus indicano la possibilità di iniziare un peraltro lento e graduale ritorno alla normalità a maggio se non giugno. Mi domando se qualcuno dalle parti di palazzo Chigi abbia minimamente fatto una valutazione di quel che potrebbe succedere se gli italiani fossero messi nella condizione (costrizione) di rimanere chiusi in casa per ancora 6-10 settimane. La rivolta nelle carceri non è bastata come campanello d’allarme? L’Italia non è uno Stato di polizia, né ci tiene ad esserlo. Certo, vuole essere guidata da persone risolute (appunto!), ma che sappiano trarre la loro forza dal fatto di essere politicamente competenti e comunicativamente convincenti, non dal fatto di esautorare il Parlamento e giocare a fare il Putin della situazione.

Di sicuro costoro nelle cui mani sono le nostre sorti non hanno idea di come funzioni la nostra economia, da cosa sia composto il nostro pil e come sia facile, se si commettono errori, produrre qualche punto percentuale di decrescita (magari il noto comico capopopolo, oggi silente, sarà contento), perdere capacità produttiva (nella crisi del 2008 e seguenti ne abbiamo persa un quarto del totale e l’abbiamo recuperata solo marginalmente), mangiarsi quote di mercato nella competizione globale e raddoppiare il già alto numero di disoccupati. Se lo sapessero non avrebbero detto proclamato ogni minuto che la salute viene prima dell’economia, non perché debba essere il contrario, ma perché non c’è l’una senza l’altra. Dunque, cosa faranno quando si passerà dal dolore per i morti e alla paura del contagio all’angoscia per le imprese che chiudono, le partite Iva che restano senza alcuna rete di protezione, i lavoratori dipendenti che diventano disoccupati e quelli che già lo sono che perdono ogni speranza di trovare un lavoro? Come si comporteranno i tanti italiani (la maggioranza) che formano quella che Luca Ricolfi ha chiamato la “società signorile di massa” quando si accorgeranno che di signorile gli sono rimasti solo i risparmi, che però dovranno mangiarsi per mangiare?

Non basta dire sussidieremo. Primo perché non è solo quello il problema, come dimostrano le ultime crisi. E secondo perché siamo arrivati a questo maledetto appuntamento con la storia letteralmente in mutande, con la recessione già alle porte prima del virus e con il debito pubblico (2.443 miliardi) attestato sul 134% del pil. Una condizione che non ci consente di utilizzare più di tanto la sospensione, peraltro temporanea, del Patto di stabilità Ue. Supponendo di spendere a debito circa il 10% del pil (170 miliardi) come faranno tutti i paesi europei (come minimo), ecco che nel 2020 il rapporto debito-pil schizzerebbe tra il 150% e il 170%, a seconda che la recessione ci faccia perdere 5 o 8 punti percentuali di ricchezza prodotta (questo è ormai il range delle stime in corso). Questo non farebbe più scattare le sanzioni europee, ma di certo non bloccherebbe quelle dei mercati finanziari, che spingerebbero all’insù lo spread – solo limitatamente calmierato dalla Bce, che pur avendo stanziato nuovo QE non può sottoscrivere nuove emissioni perché opera solo sul mercato secondario – fino a mettere in forse la sostenibilità del nostro debito, anche a causa dell’inevitabile downgrade delle società di rating che ridurrebbe i Btp a titoli “spazzatura”. Cosa che porterebbe al fallimento delle banche e l’Italia dritta dritta fuori dall’euro. 

Finora i ragionamenti che si fanno nel Governo sono fondati su due speranze, oltre a quella derivante dall’appello al solito stellone: sperare che l’Europa si decida a fare debito federale, emettendo eurobond; sperare che si possa ricorrere ai prestiti del Mes. Nel primo caso sarebbe davvero l’esaudirsi di un desiderio serio, anche perché oltre a fare debito comune quelle risorse dovrebbero essere spese da un soggetto europeo e affidate ai singoli stati, cosa che aumenta la probabilità che la quota parte per l’Italia sia spesa meglio che se messa in mani italiche. Ma quante sono le possibilità che accada? Per ora poche, e l’okay di Berlino alla sospensione dei vincoli europei, vissuto dai tedeschi come il male minore rispetto agli eurobond, non fa ben sperare. E comunque senza la nomina di un super commissario (io ho proposto Mario Draghi) con l’attuale architettura istituzionale di Bruxelles non si andrebbe da nessuna parte. Nel caso del Mes, la cifra massima del prestito ammonterebbe a 65 miliardi, troppo poco, e comunque senza l’improbabile sì di tedeschi e olandesi non si potrebbe fare nulla.

Tra l’altro, le contromisure economiche – quelle vere, non i pannicelli tiepidi del decreto di qualche giorno fa – vanno decise prima che la diga crolli, se si vuole evitare che faccia la fine di quella del Vajont. Quindi subito. Sì, è vero, c’è la possibilità, come dice qualcuno, che passato questo tsunami si creino le condizioni per un nuovo boom, tipo quello che negli anni Cinquanta ha accompagnato la ricostruzione post-bellica. Ma dobbiamo sperare di arrivarci vivi – fisicamente ed economicamente – a quel momento. E con una classe politica come questa, è inutile girarci intorno, non c’è speranza che tenga.

Signor Presidente della Repubblica, è venuto il momento che il Quirinale prenda in mano la situazione. Senza indugio. Sì, lo so, ci sono i vincoli della Costituzione, cui lei è giustamente ligio. Ma la condizione di guerra in cui siamo – o ci siamo messi – richiede atti eccezionali. Lei è l’ultima, e unica, speranza. 

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