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L'editoriale di TerzaRepubblica

2019: un altro anno buttato

CRESCITA ZERO, POLITICA IMPLOSA ANCHE IL 2019 È STATO UN ANNO BUTTATO

20 dicembre 2019

Abbiamo buttato via un altro anno. Che si aggiunge ai tanti già sprecati. Tempo dilapidato che ci inchioda ad un presente deludente e ci allontana da un futuro che continua a farci paura. In economia, siamo ancora in piena stagnazione e dobbiamo ringraziare l’export se non siamo scivolati in una nuova recessione. La politica interna offre uno spettacolo ogni giorno più indecente, tra un governo privo di qualunque respiro strategico e la magistratura che ha ripreso a dettare l’agenda con inchieste più o meno fondate ma mediaticamente sempre molto eclatanti. Mentre lo scenario internazionale non riesce ad essere confortante, vuoi perché l’Europa non pare capace di sfruttare il voto “non sovranista” dei suoi cittadini, vuoi perché per la prima volta dal dopoguerra si fatica a sentirsi pienamente a proprio agio dentro l’alleanza atlantica e la Nato.

Questa condizione di assoluta precarietà e incertezza spiega perchè gli italiani siano così tanto delusi, spaventati, ansiosi, rancorosi. Vittime dell’idea, infondata, che siamo diventati tutti più poveri e di quella, fondata, che l’ascensore sociale si è fermato e che i figli staranno peggio dei padri. È per questo che, come ci dice il Censis, la metà di loro invoca l’uomo forte cui dare pieni poteri, il decisionista che sistemi le cose, alla Putin o alla Erdogan, per capirci, naturalmente pensando che siano sempre gli altri a dover essere messi in riga. Per ora, non essendoci figure così, ma solo macchiette ci siamo fatti andar bene i surrogati: l’imprenditore che ha fatto i soldi, il partito del saltimbanco pieno di ignoranti e incompetenti, il populista trasformatosi da secessionista a nazionalista. Con una sinistra, sempre meno rappresentativa dei suoi ceti sociali, capace di essere solo “contro” e nello stesso tempo governativa senza coraggio. Adesso tocca alle sardine, domani chissà. Leadership che evaporano, partiti personali che nascono e muoiono: a furia di “vaffa” e di “politicamente corretto”, la volatilità politica è diventata altissima, perché c’è sempre qualcuno che urla più forte di quello che sbraitando ha conquistato il potere. È in questa situazione di assenza di culture politiche vere e quindi di capacità di analisi e di proposta, che lo scenario politico nazionale di fine anno assume i contorni di una finta atarassia. I vertici di maggioranza, che si susseguono a ritmi da Prima Repubblica (ma in comune con quelli hanno solo la frequenza), non hanno prodotto né un accordo solido e duraturo né una rottura conclamata, ma la mancanza di una guerra aperta e frontale sia tra coloro che sono al governo sia tra questi e le opposizioni, ha consentito al Conte2 di vivacchiare, predisponendo una manovra di bilancio senza infamia e senza lode che scivola verso il traguardo senza particolari intoppi parlamentari. Una logica di pura sopravvivenza che consente anche di affrontare le emergenze – ultima quella bancaria, ennesima – purché si resti sui binari del già fatto e del già detto, senza il minimo scarto di fantasia e innovazione.

In questo quadro di desolante continuismo – che stride con le differenze estreme urlate nella campagna elettorale permanente in cui viviamo – l’aspettativa principale resta quella di elezioni anticipate. La crisi si farà a gennaio, magari in conseguenza del risultato delle elezioni in Emilia-Romagna? Oppure la rottura si consumerà subito dopo aver provveduto a portare a casa i vantaggi della “grande spartizione”, cioè il giro di nomine previsto per marzo che riguarda molti dei maggiori attori del potere economico nostrano? E se crisi sarà – a prescindere dal quando e dalle sue motivazioni – la conseguenza saranno inevitabilmente le elezioni (ad aprile o a giugno) oppure è pensabile che possa prendere forma un governo di “salvezza nazionale” come ha recentemente proposto Salvini, pur senza particolare credibilità? Come i nostri lettori ricorderanno, sono interrogativi che abbiamo posto già da tempo, nulla è cambiato. Se non una variabile che potrebbe rivelarsi decisiva: il raggiungimento del quorum di parlamentari necessari per convocare un referendum relativo alla conferma o meno della norma di carattere costituzionale che riduce di un terzo il numero di deputati e senatori. Siccome nessuna forza politica, al di là di come si sia comportata al momento dell’approvazione del taglio dei parlamentari, ha alcun interesse a veder ridotta la platea degli eletti, più d’una potrebbe essere indotta ad approfittare della prossima convocazione del referendum per aprire la crisi e andare subito alle urne, vuoi per evitare di doversi schierare nella consultazione referendaria vuoi per votare con il vecchio sistema. E questa, forse, potrebbe essere una tentazione persino più forte di quella di potersi sedere al tavolo delle nomine in primavera.

Certo, come si vede, la partita politica non appare per nulla in grado di incoraggiare le speranze di cambiamento. E questo non potrà che ripercuotersi sulle prospettive della già asfittica economia italiana. Il 2019 si chiuderà con una crescita zero, che potrebbe ripetersi anche nell’anno che sta per iniziare, cui come massimo si attribuisce la possibilità di registrare un incremento del pil dello 0,4%. Una condizione in cui un qualunque shock, anche lieve, può farci riprecipitare in recessione. Ma ciò che è più grave, è che anche quest’anno – e, a politiche invariate, anche nel 2020 – si è confermato e consolidato il trend, che dura dal 1995, circa l’assoluta stagnazione della produttività, che risulta a zero laddove si guardi alla totalità dei fattori, capitale e lavoro. Cosa che ci impedisce di affrontare con una qualche efficacia la concorrenza mondiale, che peraltro si è ormai spostata dal terreno dei soli costi (del lavoro e della produzione) a quello ben più impegnativo dell’innovazione tecnologica. La nostra unica ancora di salvezza rimane la capacità di esportare: dopo il 3,2% stimato per il 2019, le nostre esportazioni sono previste in aumento del 2,8% nel prossimo anno e del mediamente del 3,7% medio nel biennio 2021-2022. Numeri che ci dicono come il nostro export tenga il passo ma nello stesso tempo tenda a rallentare, cosa che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme, perché se davvero il flusso delle esportazioni dovesse per qualche motivo, anche solo congiunturale, perdere il ritmo di questi anni, la caduta in recessione sarebbe sicura e pesante.

Come si vede il consuntivo di questo ennesimo anno di transizione verso non si sa bene che cosa, è davvero deludente. E le prospettive per l’anno a venire non sono per nulla incoraggianti. Il fatto è che manca la scintilla. Quella della piena consapevolezza della portata dei problemi – di cui non si conosce, per ignoranza e ignavia, il reale perimetro – e delle loro vere cause, così come quella capace di accendere e convogliare le energie, psicologiche prima ancora che pratiche, necessarie a invertire la rotta. A bagnare le polveri è la rassegnazione. Forse non nella dimensione privata di ciascuno di noi, non comunque di tutti, ma di sicuro nella dimensione collettiva. La quale, come ci sforziamo sempre di rammentare prima di tutto a noi stessi, non è e non può essere semplicemente la somma delle situazioni individuali. Occorre (ri)trovare una capacità progettuale comune, individuando le priorità e condividendo le modalità. Le risorse, nonostante il debito pubblico che rimane mostruosamente grande e incombente, non mancano, in un’Italia che resta risparmiosa e in un mondo dove il denaro costa zero. Occorre un grande disegno strategico per il sistema paese, con un orizzonte temporale di almeno un decennio, e un “piano Marshall” per realizzarlo. La fiammella della speranza che ci sia la consapevolezza di questa necessità l’ha accesa un imprenditore che ha affermato il marchio del suo caffè nel mondo, Andrea Illy, che ha lanciato l’idea di ridefinire il “modello Italia”, anche a partire dalle tante eccellenze dei nostri territori. Vedremo se, prima di tutto nel mondo imprenditoriale – la Confindustria ha alle viste il rinnovo dei suoi organi dirigenti, e Dio solo sa quanto sia necessario un suo profondo rinnovamento, così come di tutti i corpi intermedi e di rappresentanza degli interessi – il suo messaggio avrà seguito.

Per ora chiudiamo con questa speranza il dialogo con i nostri lettori, che ringraziamo per l’attenzione con cui ci seguono e ai quali rivolgiamo l’augurio più sentito di buone feste e, soprattutto, di un anno migliore di quello che sta per chiudersi. Auguri affettuosi e arrivederci al 10 gennaio 2020.

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