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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il Governo dura fino a primavera

IL GOVERNO DURA FINO A PRIMAVERA. MA L’ALTERNATIVA NON È SALVINI-MELONI E NEPPURE DRAGHI

25 ottobre 2019

“Fino a quando dura questo governo?” Ormai è statisticamente comprovato che quando è questa la domanda più gettonata che ti viene rivolta dai mondi imprenditoriali, finanziari e professionali, vuol dire che su quell’esecutivo e su quella maggioranza di governo è piombato un letale scetticismo. Era successo con il Conte1 e l’alleanza nazional-sovranista di Lega e 5stelle: già a gennaio, dopo che in qualche modo era stata portata a casa la manovra di bilancio e l’agenda del governo era parsa vuota e quindi più facilmente si poteva litigare su tutto, ci si interrogava insistentemente sulla tenuta dei gialloverdi. Ci sono voluti poco più di 7 mesi, ma poi esecutivo e coalizione sono andati a farsi benedire. Ora, dopo appena 50 giorni di vita del Conte2, ecco tornare il tormentone, anche a fronte delle tensioni che stanno accompagnando il faticoso e modesto parto della nuova manovra finanziaria: tengono o cascano? Quesito a cui, ora, se ne aggiunge un altro altrettanto ritmato: faranno spazio a Draghi, adesso che lascia la Bce?

Naturalmente, anche in politica come in tanti aspetti della vita, occorre mettere in conto una certa dose di fatalismo: ci sono inerzie che non controlli, imprevisti che non puoi nemmeno immaginare. Al netto di questo, però, non è difficile fare un pronostico seguendo il filo degli interessi dei protagonisti. E allora, rispondiamo così ai tanti che ci pongono ossessivamente il fatidico quesito: questo governo durerà fino ad aprile. Cioè quando si faranno le nomine nelle più importanti società direttamente o indirettamente controllate dal Tesoro e da Cassa Depositi e Prestiti: Eni, Enel, Leonardo, Terna, Poste solo per citare le principali. Scelte sicuramente importanti, ma che agli occhi di politici a bassa gradazione intellettuale e ad alta bramosia di potere – briciole, ma che per degli improvvisati è tanta roba – rappresentano l’apogeo assoluto della loro attività. È prevedibile che la lotta per determinare presidenti, amministratori delegati e consiglieri di amministrazione sarà sanguinosa, e già ora le scaramucce cui assistiamo su altri temi sono propedeutiche a definire la forza contrattuale di partiti e singoli leader. Prendete Renzi, che sicuramente sarà il più attivo – e forse anche il più scaltro, visti i competitor – nella partita delle nomine: prima ha spinto il Pd all’improvvido abbraccio con i 5stelle, favorendo la nascita del Conte2, e poi si è fatto il suo partito, non diciamo solo ma sicuramente anche e soprattutto per poter meglio disporsi al tavolo delle nomine. Il fatto stesso che alcuni dei suoi amici siano rimasti dentro il Pd, fa pensare che al momento giusto una loro possibile fuoruscita sarà fatta pesare nel braccio di ferro su questo o quel manager da piazzare. E il suo tirare la corda, senza spezzarla però, nelle scelte sulla finanziaria e gli altri provvedimenti di governo ha come motivazione principale il fatto di creare oggi le migliori condizioni possibili per ottenere domani.

Dunque, questo governo ha davanti sei mesi, travagliati ma sicuri. E poi? Tutti parlano di un secondo traguardo politicamente importante, quello della nomina del Capo dello Stato. Ora, Mattarella è stato eletto presidente il 3 febbraio 2015, e quindi il suo settennato avrà termine a fine gennaio 2022. Ma negli ultimi sei mesi del suo mandato, le Camere non possono essere sciolte – è il cosiddetto “semestre bianco” – e dunque il limite massimo per un eventuale fine anticipata della legislatura pre battaglia per il Quirinale è luglio 2021. Stiamo parlando di 21 mesi da oggi e 15 mesi da dopo il giro di valzer delle nomine pubbliche: è ragionevole pensare che questo governo duri tutto questo tempo? Per rispondere, oltre ad avere la sfera di cristallo, bisognerebbe sapere in quali condizioni la politica e il Paese arrivano ad aprile prossimo. Se, per esempio, la congiuntura economica peggiorasse – cioè ci facesse passare da crescita zero a recessione – e se la lotta politica nel frattempo fosse stata così cruenta da scavare fossi incolmabili nei rapporti tra le forze di maggioranza, è probabile che a giugno dell’anno prossimo potremmo andare a votare. Tuttavia, come è accaduto lo scorso agosto, non è detto che l’unico sbocco di una crisi di governo debbano per forza essere le elezioni anticipate. Potrebbero, invece, formarsi altre maggioranze, o più probabilmente determinarsi equilibri diversi dentro la maggioranza giallorossa, cosa che avrebbe come conseguenza il formarsi di un altro governo o, quantomeno, un forte rimpasto dentro quello attuale. D’altra parte, piaccia o non piaccia, lo si ammetta o lo si neghi, siamo tornati ad un sistema a base proporzionale, anche se non pienamente, e per definizione le alleanze sono a geometria variabile.

Ci si domanda se la fine del suo impegno alla Bce e il suo ritorno a casa da Francoforte non consegni al gioco politico un pezzo da novanta come Mario Draghi, con tutto quello che potrebbe significare in termini di ridefinizione degli equilibri. Non siamo la moglie – cui scherzosamente l’ormai ex banchiere centrale ha demandato il compito di decidere il suo futuro – ma possiamo affermare di conoscerlo sufficientemente bene per azzardare che non è e non sarà disponibile per palazzo Chigi, se non in circostanze così particolari che non vediamo all’orizzonte, e che francamente non ci auguriamo di vedere. Diversa, invece, sarebbe la propensione di Draghi per un altro Palazzo, quello del Quirinale: qui ci sentiamo di affrontare il rischio della scommessa. E d’altra parte, se ci pensate, sarebbe davvero la migliore delle soluzioni che si possono dare ad un problema non da poco, quello di individuare un successore di Mattarella che sia all’altezza. Sapendo che sia per la tenuta del corpo sociale – è probabile che la parola chiave del nuovo rapporto Censis che vedrà la luce tra poco più di un mese, sarà “smarrimento”, che è il sentimento più diffuso oggi in tutti gli strati della nostra attonita società – sia per la rappresentanza dell’Italia nei contesti internazionali, oggi sottoposti a stress inauditi su molti fronti, il ruolo del Presidente della Repubblica è davvero cruciale. Non siamo – e per quello che ci riguarda non auspichiamo di diventare – una repubblica presidenziale, ma non c’è dubbio che il presidio del Quirinale oggi sia enormemente più importante di un tempo, visto il crescente svilimento del Parlamento, la fragilità delle forze politiche e l’altissima volatilità della delega politica. Nel frattempo, Draghi va dunque preservato da giochi e giochetti politici, sapendo che 21 mesi di astinenza non potranno che renderlo più credibile nel momento in cui fosse chiamato a rendere un servigio al Paese.

Come vedete, anche in questa circostanza, come in quella precedente, per le sorti del governo poco o nulla dipende da ciò che fa l’opposizione. Prima di tutto perché in questa fase – ma succedeva anche nella Seconda Repubblica con il bipolarismo derivante dal sistema maggioritario – è la stessa maggioranza ad avere in sé forme di opposizione che sono più importanti e incidenti di quello che può fare chi in parlamento siede dall’altra parte dell’emiciclo. In secondo luogo, perché c’è una debolezza intrinseca delle forze di opposizione. Era debolissimo il Pd ieri, non è certo forte il centro-destra oggi. Non tragga in inganno la manifestazione dello scorso sabato a Roma: non è certo nelle piazze che la proposta moderata trova la sua massima espressione. Strano che questo semplice concetto sia sfuggito a Berlusconi, per la verità sempre più etereo. Il suo accodarsi a Salvini in quella circostanza crediamo segni la sua definitiva estinzione politica, e bene hanno fatto quelli di Forza Italia che si sono dissociati (anche se quello è un partito personale destinato inevitabilmente a seguire la parola del suo fondatore-padrone). Certo, è vero che il capo della Lega nelle ultime settimane aveva tentato con qualche intervista, un po’ penosa a dire il vero, di farsi una verginità moderata ed europeista che non ha mai avuto, ma ammesso che qualcuno ci fosse cascato – per esempio il direttore del Foglio – essa è subito caduta con il riecheggiare delle solite parole d’ordine populiste e sovraniste a San Giovanni.

Tutto questo significa che sarebbe un artificio continuare a chiamare “centro-destra” l’alleanza tra la Lega e Fratelli d’Italia, anche se Berlusconi dovesse reiterare l’errore di prestare la sua copertura. Vedremo come andranno le prossime amministrative, a cominciare dal voto in Umbria delle prossime ore, ma ci sentiamo di pronosticare che il duo Salvini-Meloni difficilmente potrebbe raggiungere la maggioranza al Senato con questa legge elettorale, e tantomeno se dovesse essere corretta in senso ulteriormente proporzionale. Ergo rimane il solito problema – diciamo solito perché ci siamo persino stancati di ricordarlo – di dare rappresentanza al grande popolo del centro politico. Renzi ci sta provando, ma purtroppo la sua (discreta) cultura riformista picchia contro la barriera di antipatia e diffidenza che l’uomo è magicamente riuscito a costruire intorno a sé. Occorre qualcosa di più e di diverso. Speriamo che arrivi prima di tornare a votare.

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