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L'editoriale di TerzaRepubblica

Greta, i catastrofisti e le merendine

IL MONDO È DA CAMBIARE MA NON È COME LO DESCRIVONO GRETA E I CATASTROFISTI

27 settembre 2019

Pensando, erroneamente, di aver già vinto la battaglia epocale contro il sovranismo e il nazional-populismo, veri nemici assoluti dopo la caduta del comunismo, il mondo occidentale è attraversato dalla tentazione di individuare nei processi di globalizzazione, nel capitalismo (definito iper o turbo) e in molti aspetti del progresso, specie tecnologico e scientifico, i bersagli su cui scaricare tutte le frustrazioni sociali che lo pervadono. In particolare, accade in Europa, dove il benessere è più diffuso, i sistemi di welfare sono più radicati, i diritti maggiormente consolidati dei doveri, e dove più alto è stato il prezzo da pagare al trasferimento di quote di ricchezza ai paesi emergenti. Da qui Thomas Piketty che scrive un tomo per dimostrare che il capitalismo non è più in grado di giustificare le disuguaglianze che produce. Da qui l’irascibile Greta Thunberg, che a nome di milioni di giovani rinfaccia ai governanti di aver rubato il futuro alle nuove generazioni. Sollecitazioni intellettuali ed emotive cui occorre prestare rispetto e orecchio, non fosse altro perché i traguardi raggiunti dal mondo civile progredito sono sempre stati raggiunti, dalla rivoluzione francese in poi, grazie dal confronto-scontro di culture e istanze diverse che hanno reso dinamici individui e società. Ma che in questo caso rischiano di essere condite, e rovinate, dalla rancida salsa della retorica del politicamente corretto, se non addirittura di un vero e proprio fondamentalismo ideologico.

Chi ci segue da tempo sa che in questo spazio non abbiamo mai ceduto al fascino dell’allarmismo ecologista. Anzi, sa che militiamo senza indugio nel (minoritario) partito del “sì”, per quanto temperato da un pragmatico “purchè”. Ma questo non significa che non siamo consapevoli dei costi ambientali dello sviluppo, e in particolare di quello figlio della globalizzazione, che (per fortuna) ha allargato enormemente il fronte dei paesi industrializzati. E di conseguenza non siamo insensibili all’idea che si debba provare a correggere il tiro, usando il meccanismo degli incentivi e dei disincentivi e persino mettendo dei vincoli, purchè non nascano da pure (e ottuse) preclusioni ideologiche. Ed è proprio qui che rischia di cascare l’asino.

Greta – che sarà pure un tantino antipatica e presuntuosa ma non merita gli attacchi beceri che i più retrivi e reazionari le hanno riservato – sbaglia valutazione, e svilisce il suo messaggio, quando non tributa il dovuto omaggio al progresso che concede a lei e a tutti noi benefici che soltanto un secolo fa non avrebbero potuto trovar posto nei sogni che l’audace ragazzina svedese denuncia le siano stati rubati. Come si fa a non tener conto, quando si denuncia che fin qui il mondo ha prodotto solo catastrofi e dolore, che per esempio nel 1990, cioè solo 30 anni fa, il 40% della popolazione mondiale, cioè 2 su 5 miliardi, stava sotto la soglia della povertà assoluta, mentre oggi quella percentuale è scesa al 10% (700 milioni su 7 miliardi)? Oppure che in media la speranza di vita degli abitanti della Terra è salita, sempre negli ultimi tre decenni, da 64 a 72 anni? O che allora erano 10 su 100 i bambini che morivano entro i primi cinque anni di vita, mentre oggi sono 4 su 100? E perché mentre si denunciano le diseguaglianze crescenti – che, è vero, ci sono, perché una parte rilevante della ricchezza mondiale si è concentrata in poche mani e perchè si è aperta in modo insopportabile la forbice che separa la media di salari e stipendi dagli ultra milionari emolumenti di una ristretta casta manageriale – ci si dimentica di dire molte centinaia di milioni di uomini e donne sono passate dall’indigenza o al massimo dal pugno di riso quotidiano ad uno standard di vita simile a quello europeo, e che negli ultimi 50 anni la ricchezza pro capite è più che raddoppiata in termini reali crescendo da 3.500 a 8.500 dollari?

Quanto alla – giusta – preoccupazione per la salute del pianeta, i richiami a politiche di intervento a tutela dell’ambiente apparirebbero più credibili se in premessa si dicesse che l’impatto negativo dei cambiamenti climatici è comunque più piccolo dei tassi di crescita economica. Anche perché è inevitabile che ad una diagnosi errata corrispondano terapie inefficaci se non dannose. Una ventina di anni fa l’economista americano Julian Simon, pronosticava che nel lungo periodo le condizioni materiali di vita continueranno a migliorare per la maggior parte delle persone nel mondo, e che in un secolo o due tutte le nazioni godranno di un benessere analogo a quello di cui si gode attualmente nel mondo occidentale. Viceversa, persino un conservatore del calibro di Richard Nixon, influenzato dai molti dei profeti di sventura ambientale che avevano accompagnato il ’68 con le loro profezie sulla fine dell’umanità, si lanciò a preconizzare che negli anni 2000 le città americane sarebbero divenute invivibili a causa del numero troppo elevato di residenti e degli intollerabili livelli di inquinamento atmosferico che avrebbero raggiunto. Chi abbia avuto ragione è sotto gli occhi di tutti: lo sviluppo delle tecnologie ha consentito di ridurre nei paesi occidentali i livelli di concentrazione di sostanze inquinanti – mentre nei paesi emergenti si paga lo scotto della neo-industrializzazione – e di meglio di proteggerci dalle avversità climatiche. Questo non significa – lo ripetiamo a scanso di equivoci – che non sia da considerarsi benvenuta la nuova Kyoto e i suoi parametri destinati a sconvolgere i paradigmi del capitalismo “3.0” e persino, forse, gli equilibri geopolitici mondiali.

In questo contradditorio quadro di sane ambizioni progressiste e ambientaliste e di retoriche declamazioni catastrofiste, l’Italia non fa eccezione. Anzi, ci mette del suo, visto che è il paese che riesce a passare, imperturbabile, dalle spire del peronismo dei “pieni poteri” e dall’illusione che con “l’uno vale uno” si possa rovesciare la clessidra delle gerarchie sociali a favore del popolo “buono” e a danno delle élite “cattive”, all’evocazione di un salvifico “green new deal” a base di “economia circolare” e “sostenibilità” – cose serie, se seriamente trattate – ma anche di merendine tassate (slim tax) e di ritorno ai prodotti sfusi in nome della religione “plastic free”. Le stesse manifestazioni degli studenti – piene di ingenuità e di contraddizioni ma pur sempre segno di un risveglio della coscienza collettiva di generazioni che rischiano di esaurirsi nei social e nell’individualismo supportato dalle tecnologie – da noi sono state preventivamente rovinate dall’improvvida uscita del ministro dell’Istruzione, che per sentirsi “sessantottino” ha pensato bene di incentivare l’uso non consapevole dello sciopero scolastico. Non meno equivoche paiono le parole d’ordine green del momento in chiave economica, laddove pretendono di sottintendere un nuovo modello di sviluppo che nessuno sa ben spiegare in cosa consista, alimentando il sospetto che si tratti di rifritture ideologiche a base di “no a tutto” e di “sì all’impossibile”. E noi di tutto abbiamo bisogno meno che di decrescita (in)felice.

Il fatto è che finora siamo andati nella direzione sbagliata. Nella lettera che la Commissione europea ci ha spedito a maggio, tra i molti rimproveri c’era anche quello per gli scarsi investimenti “green”. Secondo Bruxelles, per arrivare ai target ambientali Ue fissati per il 2030, l’Italia dovrebbe rivoluzionare la propria politica economica, puntando tutto sulle infrastrutture energetiche e di trasporto sostenibili, mettendo soldi su nuove ferrovie, reti e molto altro. Fortunatamente c’è una finestra di opportunità da cogliere, perché la Commissione targata Ursula von der Leyen, potrebbe decidere lo scorporo degli investimenti ambientali dal calcolo del deficit. Una sorta di “golden green rule” che ci consentirebbe, per esempio, di varare un solido piano contro il dissesto idrogeologico. Ma anche di passare dal trasporto su gomma a quello su ferro, costruendo nuove e più efficienti ferrovie. E di puntare su nuovi gasdotti e trivelle, evitando che i giacimenti nell’Adriatico siano sfruttati da tutti tranne che da noi, come accadrà se fosse confermato lo stop a nuove concessioni. E poi di investire in impianti che possano trasformare i rifiuti in energia, evitando lo scempio della spazzatura che vediamo in alcune città. Di rinnovare la rete elettrica e puntando sui sistemi di accumulo necessari per valorizzare al massimo le rinnovabili. E, ancora, di ammodernare la rete idrica, il che significherebbe abbandonare la velleitaria idea della cosiddetta “acqua pubblica”. Senza contare i materiali sostitutivi della plastica, l’auto elettrica, le batterie di accumulo di energia. Tutte cose per le quali occorre investire in ricerca e innovazione, prima di tutto nelle università.

Ovviamente, per fare tutto questo bisogna abbandonare l’estremismo ambientalista che finora ci ha paralizzato, assumendo una volta per tutte che ecologia e profitto, ambiente e portafoglio, devono marciare insieme. Le imprese lo hanno capito, e quelle che hanno puntato sulla riduzione dell’impatto ambientale ottengono le migliori performance. Bruxelles anche, visto che la maggiore voce di spesa del nuovo bilancio sarà quella relativa alla crescita sostenibile (60 miliardi, un terzo del totale). E chi, come i Verdi tedeschi, ha scelto l’ambientalismo ragionevole, ha preso un sacco di voti. Nel paese delle anime belle sempre dotate di buone intenzioni, invece, abbiamo addirittura sovvertito l’ordine naturale delle cose: da noi i bambini fanno politica e i politici si occupano di merendine.

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