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L'editoriale di TerzaRepubblica

Renzi contro il populismo?

LE SPERANZE (DELUSE) E I TIMORI (FONDATI) CHE POSSA ESSERE RENZI A SALVARCI DAL POPULISMO

21 settembre 2019

La vogliamo chiamare Terza Repubblica, la stagione politica che stiamo vivendo? Va bene, anche se sarebbe più corretto definirla la quinta fase della Prima Repubblica, considerando la seconda quella che va dal 1994 al 2011 (l’illusione del maggioritario), la terza quella aperta dal governo Monti e terminata con le elezioni del 2013 (il salvataggio dal default) e la quarta quella dei governi Letta, Renzi e Gentiloni (la seconda bis). In tutti i casi deve essere chiaro che si tratta del tempo – che ci auguriamo breve, diciamo come la Seconda Repubblica francese (febbraio 1848-dicembre 1851), senza che si affacci un Napoleone III, però – contrassegnato dalla destrutturazione (speriamo non decomposizione) del sistema politico, in attesa che finalmente si affaccino sulla scena italiana forze che abbiano almeno l’obiettivo della ricomposizione e del rilancio, se non proprio del Rinascimento. Insomma, la stagione che dopo aver celebrato e sperimentato al potere il populismo, lo archivi essendosi sufficientemente spaventata delle conseguenze.

Ora, la contaminazione corrosiva che il raggiungimento del potere ha prodotto ad una forza anti-politica come i 5stelle, con la conseguente crisi di consenso che ne è velocemente derivata, e la plateale constatazione della fragilità e dell’impalpabile consistenza del modello nazional-populista proposto da Salvini, sono le giuste premesse perché le cose vadano verso il big bang che abbiamo invocato. Ma, ovviamente, non basta. E sarebbe puro azzardo riporre speranze nel governo Conte2, salutabile al massimo come lo sbocco meno peggiore rispetto a quelli che si erano profilati, della crisi dell’alleanza tra 5stelle e Lega prodotta con incredibile imperizia sua, e fortuna nostra, da Salvini. No, ciò che occorre è che il centro politico, cioè quello spazio (larghissimo) che sta in mezzo tra le posizioni più radicali – e quindi più esposte alle sirene della demagogia e del populismo, di destra e di sinistra – si ripopoli dopo anni di desertificazione e di fuga di elettori (prevalentemente verso l’astensione). Ed è necessario che ciò avvenga non attraverso la nascita di effimeri partiti personali, votati o al culto del leaderismo o al ricatto politico speculando sull’indispensabilità dei loro numeri nel gioco parlamentare – o, ancor peggio, ad entrambe le cose – ma rianimando e rinnovando le culture politiche che hanno radici solide, e che non a caso in Europa sono rimaste preponderanti, avendo cura di selezionare con rigore vere classi dirigenti.

E veniamo, dopo questo lungo ma indispensabile preambolo, alla domanda del giorno: quella di Renzi è una roba seria? Ci può e ci deve interessare? Se la risposta non può che essere formulata alla luce di quanto abbiamo premesso, a prima vista verrebbe da dire ben venga. Occorre riconquistare la fiducia perduta dei ceti produttivi – intesi sia come imprenditori che come lavoratori – in gran parte collocati al Nord e che in questi anni, da incazzati, hanno fatto la fortuna di Salvini, e del ceto medio impiegatizio che sono stati alla base del fenomeno grillino? Proprio a costoro il “rieccolo” toscano intende parlare. C’è bisogno di ripopolare il centro? Renzi lì va a collocarsi. Servono forze che non stiano con i populisti e i sovranisti, ma che nello stesso non siano succubi delle forze più moderate, come il Pd e Forza Italia, che tanta responsabilità hanno del nascere e prosperare degli sfascisti? Lui, pur tra mille contraddizioni, in quella direzione dice di voler procedere. Si deve andare ad una scomposizione delle forze in campo? Non c’è dubbio che “Italia Viva”, pur per ora solo a livello parlamentare, una zeppa ce la mette. E per farlo spacca il Pd? Tanto meglio.
Fin dalla sua nascita il partito di Veltroni e Prodi è stato una contraddizione in termini: ha voluto essere contemporaneamente un partito socialdemocratico, popolare e liberaldemocratico, un’alchimia impossibile e in tutti i casi non riuscita. E che comunque richiede un sistema elettorale maggioritario puro (inglese, americano o francese che sia), mentre non può convivere con il proporzionale – anche quello attuale, seppure imbastardito da un terzo di maggioritario – che induce alla creazione di due o più forze, che poi si possono (anche) alleare. E poi, non è un caso che quella di Renzi sia la terza scissione nella breve storia del Pd dopo Rutelli (2009) e Bersani-D’Alema (2017): forse nel suo dna c’era già scritto il destino della diaspora. E pazienza se la storia delle scissioni a sinistra dimostra che la somma degli addendi finali è sempre stata inferiore al totale di partenza.

Lo si accusa di voler ereditare voti e ruolo di Berlusconi? Considerato che a sua volta il Cavaliere aveva ereditato gli elettori della Dc, ed essendo palese che né lui né Forza Italia sono più in grado di dare continuità a se stessi – lo si è visto anche in quest’ultimo passaggio politico, recitato implorando il fedifrago Salvini a ritornare nell’ormai morto centro-destra di antica memoria – non vediamo cosa ci sia di male a porsi questo obiettivo. L’importante è dirlo.
Insomma, sulla carta la mossa di Renzi sembra cosa buona e giusta, e per di più condita da un indubbio talento tattico. Poi, però, vedi che l’operazione incorpora un altissimo tasso di strumentalità. Sia perché la squaderna un minuto dopo aver proposto e ottenuto, in piena contraddizione con sé stesso, l’alleanza del Pd con gli odiati grillini. Sia perché essa si configura con tutta evidenza come una mossa di palazzo alla Ghino di Tacco (senza essere Bettino Craxi) per ricattare in sede parlamentare (al Senato i suoi 15 adepti fanno la differenza) il governo di cui è stato ostetrico, e per di più con obiettivi non tanto politici quanto di puro potere (i riferimenti alle prossime nomine e ad operazioni tra società a capitale pubblico sono talmente espliciti da essere sfacciati). E allora cominci a dubitare. Quindi cerchi nelle interviste – nemmeno lo straccio di un documento politico-programmatico accompagna la nascita di “Italia Viva”! – il senso strategico del disegno renziano, e non trovi altro che riferimenti a sé stesso, alla coerenza o meno dei suoi comportamenti, alla traiettoria personale del suo agire. Tutte cose rispettabili, per carità, ma di cui gli stessi italiani meno avvezzi alle sottigliezze della politica e più inclini al giudizio sui personaggi, si erano già abbondantemente stancati dopo l’insopportabile, oltre che autolesionistica, personalizzazione del referendum costituzionale da lui voluto. Allora ti rifugi in considerazioni di pura tattica politica, ma anche lì non capisci come un furbo come il Rottamatore non abbia calcolato almeno tre cose di tutta evidenza. La prima: che in Europa il suo “cespuglio” sarebbe stato considerato un fastidioso fattore di instabilità per la maggioranza che sorregge il Conte2, nato con il padrinaggio del trio von der Leyen-Merkel-Macron. La seconda: che togliendosi di torno rischia di cementare e rendere permanente l’alleanza tra Pd e 5stelle, l’ultimo dei suoi obiettivi politici. La terza: che per uno che aveva vinto le primarie e raggiunto il 40% dei voti (Europee 2014) – era in quel momento che doveva far nascere una cosa nuova, noi glielo dicemmo in tutte le intonazioni, come sempre e come tutti, inascoltati – mettersi in proprio con un’operazione di palazzo, oltretutto lanciata nel momento di minimo gradimento personale per non aver avuto l’umiltà di fare autocritica e sparire dalla scena per qualche tempo, non è proprio una mossa da piccolo Macchiavelli quale lui pensa di essere. Tanto più se si pensa che non sarà poi così difficile al presidente Conte – coperto da endorsement internazionali di primordine e sorretto da sponde che si chiamano Quirinale, Vaticano e grandi imprese – trovare domani a palazzo Madama una decina di “responsabili” pronti a supportare il governo quando i senatori renziani faranno scattare il loro “ricatto”.

Così, oltre che dubitare della mossa, non si può non vacillare nel coltivare la speranza che siano Renzi e la sua neonata creatura a mettere sulla giusta strada la politica italiana. L’altro giorno Giorgio La Malfa, nel commentare sul Foglio i frequenti riferimenti al Partito Repubblicano da parte di chi, come Renzi e Calenda, si sta attrezzando a costruirne uno simile, ha ricordato che il PRI fu un partito di estrema minoranza che nel dopoguerra superò il 4% solo in tre elezioni (1946, 1983 e 1992), ma ebbe il massimo di peso e di incidenza politica nonostante faticasse ad attestarsi sul 3%. E questo perché aveva un solido radicamento culturale, una classe dirigente di straordinario spessore, una visione politica di medio-lungo termine che travalicava le Alpi e una capacità di analisi dei fenomeni economici e sociali che gli consentiva una produzione programmatica di altissima qualità. Il suo andare oltre la consistenza elettorale, esprimendo un’influenza sui governi a guida altrui ben maggiore del drappello di parlamentari che aveva, non dipendeva certo da un “potere di ricatto”, ma perché del PRI non si poteva fare a meno sul piano politico. Ecco, se il nostro disastrato – e perciò da ricostruire da zero – sistema politico tornerà ad essere il combinato disposto di grandi partiti popolari e di forze di minoranza, per nulla frustrate delle loro dimensioni perchè capaci di influire sulle grandi scelte strategiche del Paese, allora saremo davvero sulla buona strada. Altrimenti continueremo ad essere preda del populismo, di massa e in formato mignon.

 

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