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L'editoriale di TerzaRepubblica

I guai politici non vanno in ferie

NIENTE CRISI DI GOVERNO MA I PROBLEMI NON VANNO IN FERIE. SENZA UNA REAZIONE AL POPULISMO SARANNO GUAI

26 luglio 2019

Cari italiani, potente andare in ferie tranquilli. Sotto l’ombrellone non sarete ossessionati dall’ennesima campagna elettorale e al ritorno non vi aspettano le elezioni anticipate. Infatti: i due vicepremier non litigano, anzi vanno d’amore e d’accordo, il premier non cerca di tessere altre alleanze né di farsi un suo partito, quello dei parlamentari del partito di maggioranza relativa che sono usciti dall’aula era solo un effetto ottico (o un improvviso problema diuretico collettivo), il governo non cade, anzi completerà la legislatura. La crisi non c’è, non è mai esistita. Né quella politica, pura invenzione del gossip mediatico, né quella europea, “che noi abbiamo vinto le elezioni, mica Merkel e Macron”, né quella economica, perché “grazie a noi la ripresa c’è, mica come la Germania che si è fermata”. E chi si era convinto del contrario aveva preso un clamoroso abbaglio, caduto vittima del solleone estivo. Per esempio, ci si era sognati – incubo notturno dovuto all’afa – che la legislazione già approvata preveda che nel 2020 scattino gli aumenti automatici dell’Iva, mentre il vicepremier Salvini (e con lui ogni altro politico, di maggioranza e di opposizione) giura e spergiura che “l’Iva non salirà mai!”. E i problemi? Ma va, in gran parte sono montati ad arte dalla propaganda anti-governativa delle forze contrarie al “cambiamento”, mentre quelli realmente esistenti da un anno (14 mesi per la precisione) sono in via di soluzione, giusta e definitiva.

Et voilà, ecco confezionata la pillola anti ansia per chi temeva di rimanere senza governo, e per chi, pur sperando ardentemente che questi dilettanti allo sbaraglio e populisti da quattro soldi si togliessero al più presto dalle scatole, si preoccupava della mancanza di alternative decenti. E pazienza se tutto resta lì a marcire, se per una Tav che viene (forse) c’è una Gronda di Genova che va (sicuro), se le previsioni dicono che il pil quest’anno non aumenterà e che per i prossimi due la crescita resterà a “zero virgola”, se per un incendio ad una cabina elettrica il sistema ferroviario nazionale si è bloccato per un giorno e le Ferrovie, da cui si pretende il miracolo di rianimare Alitalia, stanno progressivamente tornando il carrozzone disastroso e disastrato che furono. Pazienza, se in Europa non contiamo nulla e siamo completamente isolati, se russi, cinesi e americani passano dall’usarci strumentalmente per i loro giochi a schifarci come appestati, se in Venezuela – tanto per dirne una – non si è ancora capito se l’Italia è con Maduro e i suoi militari o con Guaidò. Pazienza, l’importante è poter mandare in vacanza i cittadini, finalmente rasserenati.

Francamente, non apparteniamo alla schiatta dei rasserenati, che peraltro dubitiamo sia così vasta. Sarebbe come credere che i romani, tornando alle urne dopo questi anni di guida (si fa per dire) grillina della Capitale, dovessero rieleggere la signora Raggi (ammesso che Casaleggio & C. la ricandidi) o altra persona della sua genia politica. Anzi, crediamo che nel Paese prevalga la preoccupazione per un futuro prossimo che resta incerto e oscuro. Certo, c’è anche chi si accontenta della “minimizzazione del danno”. Nei giorni scorsi, sul Foglio, il nostro amico Giovanni Orsina, professore di Storia contemporanea e stimato politologo, che all’inizio dell’esperienza di governo pentaleghista aveva auspicato quella che aveva definito la “romanizzazione dei barbari” – cioè la conversione dei populisti e dei sovranisti (questa espressione è stata coniata proprio da Orsina) ad un pragmatismo sopportabile – si è detto arreso all’evidenza. Ma facendo notare che “c’è di buono che non hanno fatto nulla”, tanto da indurre il Foglio a titolare che costoro saranno pure barbari, ma i barbari non fanno. E no, caro Giovanni, sbagli. Ben due volte. Primo perché non è vero che non abbiano fatto nulla. Tra quello che hanno fatto – da “quota 100”, grave non solo per il costo ma per il sottostante concettuale che fa credere che il livello della nostra spesa previdenziale non abbia un problema di sostenibilità, al reddito di cittadinanza, pura spesa assistenziale – e quello che hanno impedito di fare – qui l’elenco sarebbe infinito, basta ricordare che il “partito del no” è al governo – già basterebbe per dire che siamo ben lontani da quella soglia minima di riduzione del danno che auspicava l’ottimista Orsina. Ma ancor più pesante è il consuntivo se si considera la condizione di declino dell’Italia e dunque la necessità e l’urgenza di mettere in campo politiche non solo di semplice rilancio ma di vera e propria ricostruzione – politica, istituzionale, economica, infrastrutturale, sociale, morale, culturale – del paese. E qui siamo alla seconda ragione di dissenso dal “moderato” Orsina. Perché ha ragione Carlo Calenda quando sostiene – predicando bene, ma razzolando male visto che il suo disegno politico ancora non decolla (e dentro questo Pd non potrà mai decollare) – che c’è bisogno di una stagione politica “immoderata”, proprio perché i problemi sono strutturali e di tali dimensioni che non possono essere affrontati con politiche temperate, strumenti ordinari e tempistiche lente. Calenda parla addirittura di “rivoluzione”, noi ci accontenteremmo di una svolta radicale (aggettivo). Che, come sostiene Calenda, prima deve riguardare le forze liberali e riformiste, popolari e socialiste – quelle che hanno la responsabilità, con i loro gravi errori, di aver aperto la strada ai nazionalpopulisti – e quindi il sistema politico e istituzionale e infine le politiche di riforma e modernizzazione del paese.

Il fatto è, come ha ben scritto Francesco Daveri sulla Voce.info, che il governo di un paese, qualsiasi sia la nazione e la natura dell’esecutivo, deve saper indicare una direzione di marcia a milioni di famiglie e imprese che ogni giorno decidono se e come investire i loro soldi, se assumere, mantenere o licenziare forza lavoro, se fare acquisti o risparmiare e come gestire i risparmi, se aprire un nuovo punto vendita o chiuderlo, se cercare un lavoro vicino o lontano da casa, dentro o fuori dal paese. La gente comune – che il governo gialloverde afferma di voler tutelare dopo anni di sfruttamento da parte delle élite – ha bisogno di conoscere le condizioni nelle quali prendere le decisioni quotidiane. E se è con questo metro di giudizio che si valuta la capacità di un esecutivo di essere efficace, neutro o dannoso, allora è inevitabile concludere che il governo Conte-Di Maio-Savini, mosso esclusivamente da un desiderio punitivo del ceto politico e delle classi dirigenti precedenti, ha mostrato di non avere alcuna idea di dove portare il paese e di essere diviso su dove non portarlo.

Ma un paese strutturalmente in declino e congiunturalmente in crisi come è l’Italia, per quanto tempo può sopportare il vuoto e convivere con l’incertezza? La politica, sia intesa come i litigiosi partner di governo sia come opposizioni prive di strategie e leadership e per di più imbozzolate dentro infinite guerre interne, non pare scossa più di tanto da questa constatazione, ammesso (e. non concesso) che abbia l’intelligenza per farla propria. Il paese reale, però, no, sappiamo che mugugna e vive forti preoccupazioni. Vede che l’economia soffre di mancate iniziative concrete a favore dello sviluppo, e che quelle poche prese vanno per lo più nella direzione opposta. E capisce, o almeno percepisce, che è falsa la spiegazione che vuole l’Italia in stagnazione solo ed esclusivamente per via di una avversa congiuntura internazionale – che tale non è il rallentamento di talune locomotive, come quella della Germania – e per colpa delle scelte sbagliate ed egoiste dell’Europa a trazione franco-tedesca. Così come intuisce che, dopo aver buttato nella spazzatura la finestra temporale che la politica monetaria espansiva della Bce ci aveva regalato, ora sarebbe oltremodo suicida fare altrettanto con la nuova stagione di tassi a zero che Mario Draghi ha già predisposto alla vigilia della scadenza del suo mandato e del passaggio del testimone a Christine Lagarde. E che in autunno non basterà raffazzonare una qualsisia legge di bilancio per uscirne vivi.

Ma basta capire, percepire, intuire? O serve che gli italiani più accorti abbiano una reazione più netta e forte? Già, sotto l’ombrellone la crisi di governo non dovrebbe esserci (il condizionale è d’obbligo, con questi), ma a maggior ragione questa domanda potreste portarvela: “non sarà il caso di smettere di essere attendisti e fatalisti?”. Buone vacanze a tutti, noi torniamo – salvo che non ci costringano a interrompere le ferie – venerdì 6 settembre.

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