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L'editoriale di TerzaRepubblica

Le colpe del declino

SE LO SPETTACOLO È INDECOROSO LA COLPA NON È SOLO DEGLI ATTORI FORSE CONTE PUÒ PROVARE A SPARIGLIARE 

19 luglio 2019

Maldestri, dilettanti, velleitari, incapaci, impotenti, indecisi a tutto. La lista dei sostantivi usabili per definire i protagonisti di questa disgraziata stagione della politica italiana potrebbe allungarsi all’infinito, senza tema di smentita. Tanto più in vigenza del penoso tira e molla di queste ore, che di politico non ha proprio niente. Nel nostro lungo attraversare le diverse fasi della storia repubblicana, mai ci era capitato di assistere a uno spettacolo del genere. E a giudicare dalle numerose interlocuzioni con i nostri lettori, questo è – tra lo sconcerto e la curiosità di vedere come finisce, quasi fosse un film horror – il sentimento di gran lunga più diffuso, almeno nella classe dirigente diffusa e tra i tanti esponenti dell’Italia del fare. Stati d’animo perfettamente comprensibili, se non fosse che sono puntualmente accompagnati da una sorta di giaculatoria del tipo “ma cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo?”, che al contrario dell’apparenza è un inaccettabile tentativo di scaricarsi di responsabilità la coscienza. E no, cari amici, “questi” – come ormai vengono spregiativamente definiti i politici sulla scena – non vengono da Marte, non ce li ha imposti qualcuno e non sono attribuibili al destino cinico e baro che ci è avverso. Sono il frutto della nostra pianta, malata. E non ci riferiamo agli elettori che, per un motivo o per l’altro, si sono fatti convincere dalle sirene della propaganda populista – stile “arriviamo noi nuovi e facciamo un bel repulisti delle vecchie facce” – e dalle illusioni sovraniste circa il fatto che i nostri problemi deriverebbero dai tedeschi e francesi cattivi, dall’Europa matrigna e dall’euro che fa rimpiangere la lira.

No, parliamo dei moderati, dei liberali e dei riformisti, degli europeisti e degli atlantisti, quelli che sono stati e che in parte restano le componenti più centrali degli schieramenti di centro-destra e centro-sinistra, oltre che i centristi stessi, dell’elettorato e del ceto politico. Parliamo degli imprenditori più illuminati e del ceto produttivo più avveduto, dei professionisti e degli insegnanti, degli intellettuali. Ma soprattutto, delle élite che hanno abdicato al loro ruolo di guida dell’intera società. Insomma, stiamo parlando di noi, giusto perché sia chiaro che chi scrive non si esime dalla sua parte di responsabilità. Noi tutti, chi più chi meno, siamo stati acquiescenti, ci siamo girati dall’altra parte o comunque abbiamo sperato che ci fosse qualcun altro a pensarci, a mettere a posto le cose. O, come estrema ratio, ci siamo illusi che nel paese ci fosse una intelligenza collettiva che in fondo avrebbe impedito agli sprovveduti e agli avventurieri, per di più da strapazzo, di arrivare al potere e di piegarlo ai loro usi e costumi. Abbiamo sbagliato. Come ha ben scritto Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera, oggi la situazione non è la stessa che quarant’anni fa descriveva Giovanni Sartori quando denunciava che lo stato di disinformazione e di distorsione percettiva che impediva alle masse di avere una capacità valutativa minimamente evoluta della realtà complessa delle cose. Allora era sì una minoranza che possedeva gli strumenti per dare alle argomentazioni dialettiche un loro spessore al di là del merito delle tesi sostenute – non diversamente da adesso – ma in quella cerchia non imperavano le battute e i tweed, non si piegava la complessità alla semplificazione, e per quanto fosse ristretta quella platea forniva all’intero paese il quadro di un dibattito di idee ricco e di una elaborazione programmatica competente. Uno spessore che contaminava positivamente, anche grazie all’azione pedagogica dei partiti e delle forze sociali, tutti i gangli della società.

Oggi, al contrario, è la banalità a farla da padrona. Prima di tutto in quei mondi, a cominciare dalla politica e dai media, che dovrebbero invece rappresentare i filtri della buona qualità. I concetti (sic!) esposti sono schematici e ripetitivi, nella dialettica l’unica logica che vige è l’assertività e l’unico obiettivo è quello della pura contrapposizione. Lo schema che si conosce e si pratica è sempre quello “amici-nemici”. Prendete una questione spinosa e difficile come quella dei flussi migratori: da un lato c’è chi urla “rimandiamoli a casa loro, punto” e dall’altro c’è chi predica “salviamoli tutti, è la nostra coscienza che ce lo ordina”. Pochi sono quelli che sostengono la necessità di contemperare le due opposte esigenze, e comunque senza spiegare come. Nessuno si pone minimamente il problema di come sono gestiti coloro che già sono sul territorio italiano e di quante braccia il paese abbia bisogno per i lavori più diversi (che gli italiani non fanno). In queste condizioni, è impossibile che si genere un ceto di governo – non solo ministri e sottosegretari, ma anche i dirigenti e i funzionari – all’altezza della complessità dei problemi e delle sfide.

Forse possiamo rincuorarci al pensiero che non è così solo da noi, che l’impoverimento culturale del ceto politico è cosa diffusa a livello planetario e che nella competizione globale sono avvantaggiati quei sistemi paese che poco o nulla hanno a che fare con la democrazia occidentale, la quale dopo essere stata capace di sconfiggere nazismo, fascismo e comunismo ora non riesce a soffocare i germi del proprio instupidimento. Ma sarebbe magra consolazione. Noi abbiamo le nostre colpe, e far leva sul “mal comune” non porta da nessuna parte. Come scrive Belardelli, oggi l’intera classe politica, leader e gregari, di maggioranza e di opposizione, è accomunata dal fatto di essere “prigioniera di una dimensione discorsiva insieme aggressiva e infantile, fatta di mezze idee (spesso sbagliate) ascoltate chissà dove e chissà da chi”. Ma è aver consentito tutto questo e non aver ancora reagito nonostante sia chiaro il disastro che ciò comporta, che è ancora più grave.

Occorre, dunque, che si predispongano strumenti e si mettano in moto processi capaci di invertire la rotta. Senza paura di andare controcorrente. D’altra parte, è facilmente osservabile un fenomeno che questo impoverimento della politica comporta: la sempre più accentuata accelerazione del tempo di ascesa e caduta delle leadership. E quindi non ha senso – oltre ad essere poco dignitoso – che la classe dirigente consumi le suole ad inseguire leader e portaborse che, anche quando sembrano potenti e invincibili, hanno davanti lo spazio di un mattino. Non è forse meglio, e non solo per servire l’interesse generale ma anche per il tornaconto personale e di bottega, contribuire a costruire leadership solide, meno esposte a meccanismi di rapida consunzione che sono l’imprescindibile altra faccia della medaglia delle mirabolanti esplosioni mediatiche ed elettorali, altrettanto rapide? Fin dove deve arrivare il declino del Paese per far scattare la reazione?

Un esempio in questa direzione potrebbe darlo, non vi paia strano, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Sappiamo tutti i limiti dell’avvocato venuto dal niente (politicamente parlando), e non gli abbiamo lesinato le critiche per come ha affrontato, specie nella fase iniziale, il suo mandato. Ma Conte, forse più per demerito dei due vicepremier e della squadra di governo nel suo complesso che per suo merito diretto, è via via passato dalla mansione di reggitore di coda dei 5stelle a quella più dignitosa di notaio e infine a volenteroso protagonista della riappropriazione della pienezza del suo ruolo. Più formalmente che sostanzialmente, ma insomma, considerato che non è dotato di forza politica propria, si è conquistato la sufficienza. Ora, però, di fronte al disastro di questa crisi strisciante, evidente ma non formalizzata – e che lo stesso inquilino di palazzo Chigi aveva denunciato con quella inusuale conferenza stampa tenuta dopo aver constatato che le lacerazioni prodotte dalla campagna elettorale per le europee tra i due partiti di governo non si decidevano a ricomporsi – Conte può sparigliare le carte e, in sintonia con il Quirinale, provare a gestire questa fase avendo a mente ciò che più conta per il Paese. Lo ha fatto a fianco al ministro Tria per evitare la procedura d’infrazione, lo ha fatto come poteva a Bruxelles in occasione del rinnovo della Commissione Ue, ma ora deve gestire la crisi non facendo finta di poterla sopire – il governo è da gennaio che galleggia, non può ulteriormente traccheggiare – ma formalizzandola per poi indirizzarla o verso una soluzione di “vaste intese”, molto difficile ma non del tutto impossibile, o verso le elezioni. Nell’uno come nell’altro caso Conte deve cercare di disporre di forza propria, e quindi deve favorire prima e capeggiare poi la creazione di un gruppo parlamentare di “responsabili” – possibilmente non di sola provenienza grillina, anche se spaccare i 5stelle sarebbe di per sé un ottimo risultato politico – che possa riaprire i giochi.

Per la verità le ultime dichiarazioni del presidente del Consiglio non sembrano permettere di coltivare più di tanto la speranza, e comunque non è certo il partito di Conte – ammesso che si faccia – quello che può cambiare il verso di una democrazia malata come la nostra. Ma in questo momento sarebbe autolesionista non attaccarsi a qualunque appiglio.

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