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L'editoriale di TerzaRepubblica

Isolati e graziati

ISOLATI E SENZA POSTI DI COMANDO MA GRAZIATI SU CONTI LA FOTOGRAFIA DELL’ITALIA IN EUROPA DOVREBBE FARCI RIFLETTERE

05 luglio 2019

Per coloro a cui non fossero stati ancora chiari, ora si conoscono i risultati delle elezioni europee del 26 maggio. Parliamo degli esiti veri, ed europei, della consultazione, non della propaganda in chiave esclusivamente nazionale. A rappresentarceli in tutta la loro valenza politica è l’accordo raggiunto in seno al Consiglio europeo sul pacchetto di nomine ai vertici delle istituzioni continentali. Il quale dimostra quattro cose su cui prima di tutto gli elettori, e poi se possibile (ma francamente siamo scettici) anche i leader politici italiani, dovrebbero riflettere. La prima: nonostante gli slogan della campagna elettorale e le bugie raccontate successivamente al voto, “loro” – cioè quella che è stata definita con vituperio la vecchia classe politica ormai superata dalla storia – non hanno perso, ma vinto le elezioni. Tanto che Popolari e Socialisti hanno rinnovato il loro patto e trovato un’intesa con i Liberaldemocratici che, pronostichiamo e auspichiamo, sarà estesa anche ai Verdi. La seconda: di conseguenza le forze cosiddette sovraniste, di cui i due partiti di governo italiani sono componenti essenziali, sono usciti sconfitte, prima nelle urne e ora nella formazione dei nuovi assetti Ue. Per carità, non c’è nulla di male nell’essere minoranza e nello stare all’opposizione – se si è consci del proprio ruolo, trattasi di funzione fondamentale nell’ambito della democrazia – ma altra cosa è raccontare che in sede nazionale si possono fare certe scelte perché “tanto quelli se ne vanno e arriviamo noi che spazziamo via uomini e regole…”.

La terza considerazione è forse la più importante: non solo ha retto il vecchio asse di centro-sinistra, ma pure quello altrettanto stagionato franco-tedesco, l’architrave su cui si base il potere in Europa da decenni. Che, piaccia o non piaccia in Italia, è uscito più che consolidato dal giro di nomine al vertice della Commissione e della Bce. Come ha notato l’ex commissario europeo, ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, su Affari Internazionali, ancora una volta Angela Merkel ed Emmanuel Macron, pur avendo fallito il primo tentativo (quello di Osaka), hanno dato le carte e si sono aggiudicati le due posizioni più importanti. La Cancelliera tedesca, data erroneamente sul viale del tramonto, ha sì rinunciato al candidato suo e dei popolari, Manfred Weber, ma ha piazzato al posto di Juncker la sua fedelissima ministra della Difesa ed esponente di punta della Cdu, Ursula von der Leyen. Mentre il presidente francese ha fatto bingo con il passaggio della presidenza della Bce da Mario Draghi a Christine Lagarde, oggi la personalità francese più autorevole e più accreditata sulla scena internazionale. Nomina che, oltretutto, allontana i timori di una possibile discontinuità nella linea di politica monetaria fin qui seguita a Francoforte.

Infine, la quarta considerazione: lungo il doppio asse, quello Ppe-Pse-Alde e quello Parigi-Berlino, si collocano le altre tre cariche europee importanti, quella di Alto Rappresentante (ex Mogherini) andata al socialista spagnolo Josep Borrell, attuale ministro degli Esteri del governo Sanchez; quella di presidente del Parlamento europeo, andata all’italiano del Pd David Sassoli; quella di Presidente del Consiglio europeo, assegnata al primo ministro belga in carica, il liberale Charles Michel. Ma mentre nel caso di Spagna e Belgio, la scelta è caduta su esponenti di maggioranza di quei paesi, viceversa l’unico italiano premiato appartiene all’opposizione. Dunque, con buona pace di chi ha raccontato che con le elezioni del 26 maggio l’Unione europea avrebbe voltato pagina e cambiato rotta, restano a guardare – a parte il Regno Unito che fa storia a sé – l’Italia, i Paesi di Visegrad, quelli entrati nell’Ue dopo il 2004, e più in generale gli esponenti delle frammentate famiglie nazionaliste, che erano e continuano ad essere ai margini delle dinamiche europee. Ma la cosa appare grave soprattutto per l’Italia, visto che queste forze sono al governo a Roma e sul piano nazionale hanno comunque, seppure rovesciando le parti tra loro, consolidato la loro predominanza. Non avevamo dunque torto noi e chi con noi aveva paventato il pericolo di un isolamento italiano in Europa, e che ancor prima della partita a poker delle nomine, si era misurato con la presenza della Lega in un gruppo minoritario di sovranisti euro-scettici e con i 5stelle addirittura costretti a stare nel gruppo misto perché incapaci di trovare alleati nel Parlamento europeo.

In questo quadro, ad accentuare la conclamata marginalità politica, l’Italia si è presentata all’appuntamento con il fardello dell’incombente procedura d’infrazione per eccesso di debito. Per questo, non può essere imputato nulla al presidente del Consiglio sul fronte delle nomine, se non di aver subito senza reagire il veto leghista sull’olandese Frans Timmermans alla presidenza della Commissione Ue (un errore, perché sarebbe stato sicuramente meno rigorista della dura tedesca poi eletta). Mentre va considerato un miracolo quello che lo stesso Conte ma soprattutto il ministro Giovanni Tria hanno fatto nell’ottenere la chiusura della procedura relativa ai conti pubblici.

Tuttavia, vanno considerate due cose in vista dei passaggi politici che ci attendono (a proposito, c’è chi giura che entro il 25 luglio si aprirà la crisi che ci porterà a votare l’ultima domenica di settembre, ma noi rimaniamo scettici circa questo esito della crisi di governo virtualmente aperta già il primo gennaio e trascinatasi fin qui). La prima riguarda il carattere di estrema provvisorietà della decisione della Commissione di non accogliere il suggerimento di procedere contro l’Italia: guai a considerarla una partita chiusa, è solo finito il primo tempo. La seconda attiene alle conseguenze che sono destinate a prodursi sulla prossima manovra di bilancio, a sua volta vero snodo della crisi politica. Un viatico che Giorgio La Malfa ha provato a misurare leggendo in controluce le dichiarazioni di Moscovici, deducendone che a) l’Italia ha introdotto misure per il 2019 che dovrebbero assicurare che il deficit rimanga al 2,04% anche in caso di crescita zero; b) che per iscritto Conte e Tria si sono impegnati a che il bilancio 2020 stia entro i limiti convenuti con Bruxelles. Il che significa che se si rispetta il precetto non si potrà fare alcuna manovra fiscale significativa, non ci sarà spazio per investimenti e si dovrà accettare almeno una parte dell’aumento dell’Iva. Oppure, se viceversa si violeranno gli impegni, peraltro appena firmati dal governo in carica, calerà la mannaia comunitaria, e stavolta senza sconti.

Tutto questo mentre l’economia italiana è ferma ed avrebbe bisogno di uno stimolo “mirato” – cioè che agisca dal lato dell’offerta invece che a pioggia dal lato della domanda – per spingere la ripresa, che paesi più deboli e più piccoli di noi, come Spagna e Portogallo, ha agguantato alla grande. Il fatto è che il Governo ha sprecato con scelte sbagliate in termini di principio e inutili dal punto di vista delle ricadute di crescita e occupazionali, i margini di flessibilità concessi dall’Europa e dalla politica monetaria. Ora ha messo una pezza ai conti con un aggiustamento da 7,6 miliardi – che per la verità somiglia molto ad una manovra correttiva, solo in parte strutturale, anche se il governo non ama definirla tale – e, appunto, elargendo una serie di rassicurazioni, scritte e a voce, sulla manovra 2020. Il paradosso è che questo aggiustamento è stato possibile anche grazie al congelamento di 1,5 miliardi di spese relative alle due misure bandiera del governo, quota 100 e reddito di cittadinanza. Provvedimenti che sono costati meno del preventivato non per oculatezza nella gestione delle risorse stanziate ma per l’errata valutazione delle aspettative che quelle misure avrebbero suscitato.

Ora, però, al cospetto di una Commissione Ue che, come ha fatto notare Enrico Letta, sarà certamente più intransigente con l’Italia di quanto non sia stata quella – presa a male parole – guidata da Juncker e di quanto non sarebbe stata quella guidata da Timmermans, dovremo agire in un quadro di minori margini di manovra in termini di politica di bilancio senza aver minimamente ripensato i termini della politica economica. Forse, in attesa di un autunno che sarà maledettamente complicato, porsi qualche domanda sotto l’ombrellone su come sono andate, stanno andando e potrebbero andare le cose nel nostro Paese, a noi italiani non farebbe male.

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