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L'editoriale di TerzaRepubblica

Populismo e declino strutturale

ALLA BASE DEL POPULISMO C’È IL DECLINO STRUTTURALE. SCONFIGGERE L’UNO PER AGGREDIRE L’ALTRO

29 giugno 2019

È venuto il momento di alzare gli occhi. La fatale attrazione che esercita sull’opinione pubblica, via social e media, la quotidianità della politica, avvizzita in un “momentismo” – versione peggiore, in quanto accelerata, del “presentismo” – che la pervade completamente e che purtroppo va al di là della componente populista, ci impedisce sia di cogliere la complessità del presente sia di immaginare e programmare il futuro. È questa, a ben vedere, l’essenza dell’ormai trentennale declino italiano, il cui punto di partenza sta nella mancata capacità dell’Italia di dare risposta alle conseguenze – lo stravolgimento degli assetti geopolitici e geoeconomici mondiali – generate dalla caduta del muro di Berlino del 1989. Da lì sono partite ben cinque rivoluzioni epocali che, a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, hanno posto fine alla stagione della guerra fredda e degli equilibri stabiliti a Yalta e cambiato la faccia del mondo: la globalizzazione; l’integrazione europea e la nascita dell’euro; la finanziarizzazione dell’economia (che porterà alla crisi mondiale del 2008); l’avvento della tecnologia digitale e di internet; la fine delle culture politiche del Novecento, il tendenziale superamento dei concetti di destra e sinistra e la trasformazione dei partiti in comitati elettorali o in movimenti, premessa per l’affermazione della personalizzazione della politica e del leaderismo e la messa in quiescenza delle forme di selezione delle classi dirigenti e della mediazione dei corpi sociali intermedi. Si tratta di fenomeni che hanno attraversato l’intero pianeta, creando nuove grandi potenze (la Cina) e nuovi player (i paesi emergenti) e generando crisi profonde (Grecia, Argentina) in coloro che più di altri si sono trovati al cospetto di quegli appuntamenti con sulle spalle il fardello di nodi irrisolti e scelte strutturali non fatte.

Questo è stato il caso dell’Italia. Non vedere l’essenza dei problemi e non cogliere le dinamiche delle grandi trasformazioni – così come oggi, anche allora eravamo troppo immersi nella quotidianità, si pensi a quanto abbia tenuto banco la cosiddetta questione morale, da Tangentopoli in poi, per poter badare alle questioni strategiche – prima ci ha impedito di farci trovare culturalmente e materialmente preparati, poi ci ha resi incapaci di affrontare le conseguenze dei cambiamenti e infine ha prodotto l’effetto ottico distorto di farci credere che le crisi, quella del 2008 e quella del 2011, fossero il portato solo di fattori esogeni e che noi fossimo vittime costrette a fare sacrifici per colpa dei “cattivi” (i banchieri, gli eurocrati, i tedeschi, i poteri forti, ecc.). Mentre siamo stati noi a non fare per tempo le riforme strutturali necessarie, a preferire la spesa corrente (spesso di natura clientelare o comunque elettorale) a quella in conto capitale per investimenti, ad accumulare debito nonostante gli avanzi primari, a rimandare l’ammodernamento e l’efficientamento delle nostre infrastrutture, a non affrontare il tema del cambiamento dell’apparato produttivo e dell’adeguamento dell’offerta – immaginando scioccamente che la crescita passasse attraverso il sostegno della domanda, che abbiamo realizzato nei modi più inutili e diseducativi (sostegni e incentivi a pioggia, social card, 80 euro, reddito di cittadinanza, varie controriforme previdenziali fino a “quota 100”) – a complicare anziché snellire e semplificare il sistema del decentramento amministrativo, a baloccarci con le riforme costituzionali senza mai fare l’unica cosa sensata, e cioè convocare una nuova Assemblea Costituente cui demandare il compito di riscrivere in modo organico le regole del gioco e ridefinire in modo coerente gli assetti istituzionali. Sprecando in modo maldestro il tempo che la politica monetaria accomodante della Bce ha comprato per noi in questi anni, ed esponendoci colpevolmente alle sanzioni dei mercati comminate con lo spread.

A tutto questo occorre aggiungere una serie di caratteristiche strutturali, di natura socio-economica, che ci rendono un paese troppo arretrato per non essere esposto alle lusinghe del populismo semplificatorio. Come ha denunciato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nella sua relazione annuale di un mese fa, siamo per troppi versi un paese ancora analogico mentre tutto intorno a noi è progressivamente sempre più digitale. Per esempio, solo il 5% del pil italiano, è oggi riconducibile al digitale, contro l’8% della Germania e una media europea del 6,6%. E secondo i dati Eurostat, hanno il tasso di innovazione peggiore del nostro solo Bulgaria, Romania e Grecia. Un ritardo che riguarda l’automazione della produzione, specie verso chi ha una specializzazione settoriale simile alla nostra come i tedeschi, ma anche un limitato sviluppo delle reti di telecomunicazioni di nuova generazione. Per non parlare dell’uso delle tecnologie da parte delle amministrazioni pubbliche, dove siamo 19esimi su 28. Insomma, un disastro. Il nodo, però, è a monte. Ben il 40% degli italiani adulti (il doppio di Francia e Germania) non è andato oltre la licenza media o al massimo la maturità. Così, non casualmente, nel finanziamento del settore universitario siamo ad un terzo della media Ue, e peggio dei nostri adulti (nell’area Ocse) sono solo i turchi. E anche i giovani nostrani, che sono certamente più digitali, non hanno il passo dei coetanei stranieri. Sarà anche perché, detto con triste sarcasmo, una casa italiana su quattro non è nemmeno connessa a internet (Istat). Ma non se la passa bene nemmeno il settore privato, che spende in ricerca e sviluppo (0,8%) la metà della media Ocse. Un’arretratezza che si aggrava nel pulviscolare tessuto di piccole imprese, restie all’adattarsi alle tecnologie avanzate, adottate dal 50% delle imprese “grandi” (più di 250 dipendenti), ma solo dal 20% per quelle tra 20 e 50 dipendenti. Tanto è vero che tra i Paesi Ocse, in media solo Cile e Turchia hanno lavori meno “tecnologici” dell’Italia. Un gap ancor più marcato al Sud, visto che la quota del pil legata al digitale è solo al 2,5%, tre punti in meno del Centro e del Nord.

Non è dunque un caso che i nostri occupati a elevata specializzazione siano il 18,2% del totale, a fronte del 36,1% della Germania (dati Almalaurea), come anche che i nostri laureati e dottorati (dati Ambrosetti) guadagnino circa il 25% in meno degli omologhi statunitensi, francesi, britannici o tedeschi. E non deve stupire il fatto che le famiglie monoreddito siano il 40% (contro la media Ue del 27%), che le donne casalinghe siano il 36% (media Ue 27%), che la disoccupazione giovanile non abbia eguali in Europa.

Ecco, è in questo quadro che va vista e giudicata la condizione della politica e del Paese oggi. Chi si domanda, spesso con toni di disperazione e con crescente intensità, come mai siamo finiti così, e ignora – per analfabetismo o per fuggire alle responsabilità – le premesse ormai storiche di tutto questo, pone un quesito retorico che chiama risposte non meno stereotipate. Non è casuale, né colpa della cattiva sorte, se l’Italia è l’unico paese del Vecchio Continente dove il populismo ha vinto ed è al governo. Altrove sono nati e cresciuti movimenti di protesta e di sollecitazione dei bassi istinti sociali, alimentati da situazioni reali (le vittime della recessione, per esempio) o dalle paure e (del perdere il lavoro o di arretrare nel reddito) dalle insicurezze (gli emigranti), ma sono rimasti fenomeni minoritari e anche quando hanno conquistato fette di elettorato crescenti (come la Le Pen in Francia) il sistema ha subito prodotto i necessari anticorpi (Macron). Se da noi è accaduto il contrario, è perché chiamate a dare risposta erano classi dirigenti vecchie e inadeguate, a loro volta colpevoli del trentennale declino italico – chi di averlo alimentato, chi di non averlo evitato o fermato – incapaci di proporre un progetto di modernizzazione del Paese attraverso il quale dare risposte strutturali a problemi strutturali. Sarà bene che chi ha a cuore le sorti di questo benedetto paese smetta di domandarsi quando Salvini mollerà Di Maio e viceversa, o di tormentarsi per cercare di capire se si andrà a votare a fine settembre o nella prossima primavera, e si ponga finalmente la domanda, a forte tasso di autocoscienza, del cosa si è sbagliato nell’ultimo quarto di secolo per finire in queste condizioni e, soprattutto, cosa occorre fare per rimuovere gli ostacoli su cui abbiamo così a lungo colpevolmente inciampato.

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