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L'editoriale di TerzaRepubblica

Italia isolata in Europa

IL VOTO RENDE L’ITALIA FRAGILE E ISOLATA NELLA UE. CRISI DI GOVERNO? MOLTO PROBABILE

31 maggio 2019

Allora, avete votato? O fate parte di quei 22 milioni e mezzo di italiani che non lo hanno fatto? Eh sì, sono tanti, quelli che si sono astenuti, oltre il 45% del totale. E soprattutto, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove i votanti sono decisamente aumentati. E se si somma anche solo la metà degli astenuti – cioè la quota considerabile come patologica, mentre l’altra metà è quella fisiologica – ai tanti, forse tantissimi, che hanno votato per senso di responsabilità ma di malavoglia, ecco che si forma il vero partito di maggioranza. Forse addirittura di maggioranza assoluta. È quello che abbiamo chiamato “il partito che non c’è”, la cui mancanza spiega perché l’Italia sia l’unico paese in Europa a veder prevalere le forze nazionaliste e populiste. Dunque, la prima considerazione da fare sulle elezioni del 26 maggio è come, ancora una volta, dalle urne sia uscito un vincitore che, in quanto contumace, alla fine è risultato perdente. Anzi, che ha perso prima ancora di cominciare. E, francamente, è difficile attribuire la colpa agli elettori se l’offerta politica è deficitaria, sia per ciò che c’è si, soprattutto, per ciò che manca.

La seconda riflessione riguarda l’andamento del voto in Europa. Come avevamo previsto, le forze tradizionali non sono andate granché bene, senza per questo crollare, ma della loro flessione non hanno beneficiato i sovranisti, che non hanno per nulla sfondato. Infatti, se i Popolari hanno avuto una flessione e i Socialisti una ridimensionata, la forte crescita dei Liberaldemocratici e l’esplosione dei Verdi ha più che compensato l’ampiezza del fronte europeista. Mentre i due raggruppamenti in cui ci sono Lega e 5stelle, complessivamente non vanno oltre il 15% dei 751 parlamentari europei, nonostante il supporto della Le Pen e di Farage. E diventano il 22% se si aggiungono i conservatori a cui si è aggregata la Meloni. Per questo è successo quel che si temeva: l’Italia è uscita da queste consultazioni elettorali più isolata in sede comunitaria di quanto già non fosse.

La terza valutazione da fare è sul piano interno. Apparentemente il governo si è rafforzato: a marzo 2018 la somma di 5stelle e Lega faceva il 50% dei votanti, questa volta – a pesi invertiti – fa 51,2%. Peccato, però, che in termini di voti assoluti, i due partiti di governo abbiano perso, sommati insieme, 2 milioni e 714 mila voti rispetto all’anno scorso, il 16% in meno. Segno che la fiducia degli italiani è scesa, e non di poco, altro che salita. I 5stelle sono stati pesantemente puniti, sia per essersi alleati con Salvini sia per come hanno indossato i panni degli uomini di governo (o anche per il solo fatto di averli indossati). Mentre il voto alla Lega – che in termini assoluti si è incrementato rispetto alle politiche dell’anno scorso del 60%, non del 100% come farebbe pensare il confronto tra le due percentuali, 17% e 34% – sembra voler dire a Salvini molto più “sbrigati a mollare Di Maio” che non “continua così”.

Quanto alle opposizioni, il Pd si bea di aver conquistato il secondo gradino del podio, ma deve riflettere sul fatto che ha aggiunto altri 120 mila voti agli oltre 5 milioni che già aveva perso alle politiche rispetto al picco (11,2 milioni) delle europee del 2014. Per non parlare di Forza Italia, che ha dimezzato i voti (sempre in numeri assoluti) passando dai 4 milioni e mezzo del 2014 e del 2018 a 2,3 milioni. D’altra parte, la scarsa rappresentatività rispetto all’intera società italiana è di tutti i partiti se si guarda quanto ciascuno pesa rispetto alla totalità degli aventi diritto al voto: fermo restando che il partito più grande è quello del non voto (46%), la Lega rappresenta “solo” il 18%, i Pd il 12%, i 5stelle il 9%, Forza Italia il 5%. Difficile credere che in una società frammentata come la nostra, e messi di fronte a problemi di grande complessità come lo sono quelli strutturali che l’Italia in declino si porta dietro da oltre un quarto di secolo, forze così poco rappresentative, anche se legittimate formalmente, abbiano la reale capacità di governare. E infatti, se ne sono visti i risultati, almeno fin qui.

Ma se questa è l’analisi – non convenzionale – dei risultati elettorali, quali sono invece le conseguenze politiche del voto? Sul fronte europeo, siamo stati facili profeti quando abbiamo preconizzato che l’asse tra Popolari e Socialisti avrebbe dovuto allargarsi ai liberali dell’Alde, tanto più ora che vi è confluito Macron. Messi insieme i tre raggruppamenti hanno 435 parlamentari, 59 in più dei 376 che servono per avere la maggioranza. E forti del 58% possono anche fare a meno dei 69 voti dei Verdi, veri vincitori della competizione del 26 maggio, anche se non è detto che alla fine l’alleanza non si allarghi anche a loro.

Meno scontata, invece, è la lettura di quanto potrà accadere a Roma. Ora, considerato i temi dividenti, a cominciare dalla Tav, che sono già sul tavolo del governo da tempo, che la nuova manovra di bilancio incombe – e se le premesse con cui la si affronta sono la lettera della Commissione Ue e gli ultimi dati Istat sulla congiuntura assai deludenti, possiamo mettere in conto che saranno lacrime e sangue – e che lo spread da giorni anticipa il giudizio, severo, dei mercati, tutto farebbe pensare ad una crisi di governo in tempi rapidi. Tali, per esempio, da poter andare al voto nella seconda metà di settembre (15, o più probabilmente 22 o 29). Ma è pur vero che contro questa ipotesi militano, almeno a prima vista, sia l’interesse dei grillini di evitare un altro voto a breve e più in generale di far durare la legislatura per garantirsi “panem et circenses”, sia l’atteggiamento post-voto di Salvini, conciliante verso gli alleati e spocchioso verso l’Europa. Tuttavia, per Di Maio il prezzo dell’acquiescenza verso un Salvini che intende comunque far valere il rovesciamento della forza politica (anche se non parlamentare) dei due partiti nel governo, potrebbe rivelarsi presto ben più alto di quello che pagherebbe con le elezioni anticipate. E pure per il leader della Lega prolungare l’intesa con i “professionisti del No a tutto” potrebbe rivelarsi autolesionistico.

La nostra impressione, comunque, è che a far pendere l’ago della bilancia verso la rottura del sodalizio gialloverde e il conseguente ritorno alle urne – difficilissimo immaginare un altro sbocco alla eventuale crisi di governo – alla fine sarà il braccio di ferro con Bruxelles sulla finanza pubblica, tanto più se si svolge in un contesto in cui il barometro dell’economia è tornato a volgere al brutto e lo spread espone i nostri titoli di Stato al cecchinaggio della speculazione. E le premesse ci sono tutte. La lettera inviata dalla Commissione Ue nei giorni scorsi al ministro Tria, in cui si contesta il mancato rispetto di ciò che si era assicurato di fare sul debito pubblico – anziché scendere come promesso, è salito dal 131,4% del 2017 al 132,25 del 2018 – e il giallo sui contenuti della risposta del Tesoro, fanno da apripista ad una procedura d’infrazione nei confronti di Roma, e più in generale ad una durissima controffensiva delle principali cancellerie e di Bruxelles (in assoluta continuità pur cambiando la Commissione) verso di noi. Che saremo chiamati a pagare il conto di avere l’unico governo sovranista d’Europa (quello di Orban è altra cosa) e dell’isolamento che ci procura averlo sostenuto in queste elezioni. È ancora presto per capire fin dove l’Europa si spingerà nei nostri confronti, ma sbagliano coloro che fanno spallucce nella convinzione che non potranno mai metterci alla porta. Anche perchè noi arriviamo a questo showdown debolissimi – si veda la correzione al ribasso apportata dall’Istat alle sue indicazioni congiunturali, che per il 2019 ci inchiodano alla crescita zero senza neppure il beneficio del virgola qualcosa – e con un giudizio dei mercati sul rischio paese che è drammaticamente fotografato dall’avvicinarsi del nostro spread a quello greco (la differenza si è ridotta a poco più di 20 punti), tanto che ora i titoli di Stato italiani a cinque anni vengono giudicati più rischiosi di quelli della Grecia, così che  il Btp quinquennale offre così un rendimento più alto (1,74% contro 1,68%) di quello ellenico.

Tutto il resto è stato, è e temiamo resterà, campagna elettorale.

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