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L'editoriale di TerzaRepubblica

Conte Premier o notaio?

CONSOB, FRANCIA, VENEZUELA: I DOSSIER CALDI SU CUI CONTE DEVE DIMOSTRARE DI ESSERE PREMIER E NON NOTAIO

25 gennaio 2019

Giuseppe Conte è il presidente del Consiglio, con tutti i poteri che dettato e prassi costituzionale gli assegnano, o è il notaio esecutore testamentario del contratto di governo firmato da 5stelle e Lega? Fin dal primo momento il legale che si è autoproclamato “l’avvocato degli italiani”, ha preferito mettersi al riparo sotto l’ala protettrice dei due azionisti dell’esecutivo che si è ritrovato a presiedere pur senza aver mai gestito neppur un consiglio di circoscrizione. L’inesperienza sua e la bulimia dei suoi dante causa lo ha relegato al ruolo di passacarte, fino a quando il combinato disposto tra la presa di confidenza con lo status acquisito, l’interlocuzione che giocoforza gli è stata concessa nei diversi contesti internazionali e lo spazio di mediazione che i crescenti contrasti tra pentastellati e leghisti gli hanno regalato, ha fatto sì che tanto il suo stato d’animo quanto la percezione dei media – e quindi di riflesso anche dell’opinione pubblica, almeno in una certa misura – passassero ad una considerazione di lui molto più corrispondente a quella di un vero presidente del Consiglio. Che incontra i grandi della Terra, che scioglie qualche nodo politico, che interviene con una qualche autorevolezza su alcuni temi delicati, che assume agli occhi del preoccupato presidente della Repubblica le sembianze dell’interlocutore affidabile su cui fare affidamento per smorzare gli eccessi di populismo e le intollerabili intemperanze verso Bruxelles e gli alleati europei dei pasdaran gialloverdi. Sempre senza rappresentanza politica e privo di truppe proprie, ma comunque non più il finto direttore d’orchestra che inizialmente era apparso. Un cambiamento che la sua struttura di comunicazione ha alimentato, anche con qualche forzatura di troppo, proprio perché c’era un gap da colmare. Lasciando però inevasa la domanda: si tratta di una trasformazione vera o virtuale? C’è sostanza o è solo immagine?

In politica, come nella vita, però, viene sempre il momento in cui le carte si girano e i bluff, se ci sono, si scoprono. E per Conte questo momento ora è arrivato. Per via di due nodi che sono venuti al pettine, uno di natura interna e l’altro di carattere internazionale. Il primo riguarda una questione conosciuta solo dagli addetti ai lavori (e anche agli addetti ai “livori”, visto la guerra che ha scatenato), la nomina della presidenza della Consob. Importante, per carità, ma una delle tante nomine che il governo si è già trovato, e che presto tornerà, a dover fare. Il problema, però, è dato dal fatto che è emersa ormai da tempo una candidatura, quella dell’economista Marcello Minenna, che è tanto apertamente e pesantemente sponsorizzata dai grillini – sia per le amicizie di cui gode nel movimento sia per la sua pur breve esperienza di assessore al Bilancio nella giunta Raggi a Roma – quanto mal tollerata dai leghisti, anche se negli ultimi giorni Salvini è sembrato accettarla in cambio del via libera da parte degli alleati a candidature per altre posizioni che piacciono alla Lega. Ma, soprattutto, è il Quirinale a considerare inopportuna la scelta di Minenna, visto che lavora alla commissione di controllo sulla Borsa in qualità di responsabile dell’ufficio “Analisi quantitative e innovazione finanziaria” e al Colle si fa notare come prassi voglia che un dirigente interno alla Consob non debba salire al rango di commissario, a tutela della reciproca autonomia di entrambe le funzioni.

Ora, la procedura di nomina dei membri di una authority come la Consob assegna al presidente del Consiglio il potere di proporre il nome del candidato – senza necessariamente la previa approvazione del consiglio dei ministri – al presidente della Repubblica, cui spetta non la semplice presa d’atto ma, dovendo emettere un decreto di nomina, il potere di decidere se accettare o respingere l’indicazione pervenutagli. Prassi vuole che per evitare di mettere il Capo dello Stato nella sgradevole condizione di esprimere un parere negativo, si sondi il medesimo in modo informale in modo da consentirgli di esercitare una ben più discreta opera di moral suasion. Cosa che è avvenuta anche nel caso di Minenna, e il parere – sulla base delle considerazioni che vi abbiamo esposto – è stato inequivocabile. Vista però l’insistenza con cui pubblicamente – e in certa misura sguaiatamente – si è insistito sul medesimo nome, il Quirinale ha perfino fatto sapere via stampa, attraverso alcuni “quirinalisti”, che il giudizio era e rimaneva negativo. Tutto questo, però, non è bastato a silenziare il can-can mediatico – e fin qui si potrebbe dire pazienza, il bon ton istituzionale non è certo più di questi tempi – ma soprattutto non ha ancora indotto palazzo Chigi a regolarsi di conseguenza. Conte, che al rapporto con Mattarella tiene moltissimo, non ha formalizzato la proposta di Minenna, ma neppure l’ha archiviata liquidando le pressioni politiche e indicando un altro nome, temendo di recidere i fili che lo legano specialmente ai 5stelle. Ha scelto di non scegliere: tiene aperto il dossier e in stand by la nomina. Ma così inanella ben tre autogol. Intanto priva un’autorità che svolge una funzione delicata come il controllo del mercato azionario, del quinto commissario e del presidente, di cui ormai è orfana da mesi. Poi sovraespone il Quirinale, che avrebbe fatto volentieri a meno – per stile della casa e per cifra del suo inquilino – di dover rendere così esplicito un giudizio che per sua natura ha da essere riservato. Infine scontenta la sua maggioranza, che lo vorrebbe obbediente fino in fondo. Anzi, scontenta quella parte dei 5stelle che più si sono spesi per Minenna e pure quelli, come Di Maio, che sono stai indotti a cavalcare quel nome a tutela degli equilibri – sempre più precari – interni al movimento. Mentre, suo malgrado, fa segretamente felice Salvini, che ha scelto, suscitando il dissenso di molti dei suoi, di dare luce verde alla candidatura del dirigente della Consob prestato ai grillismo proprio quando ha capito che questo avrebbe messo in difficoltà in un colpo solo Conte – che al leader della Lega piace poco o niente – e Mattarella, verso il quale ha notoriamente un atteggiamento conflittuale.

Conte, però, non potrà continuare a buttare la palla in tribuna, e presto o tardi dovrà scegliere da che parte stare. Stessa cosa – sgradevole, per lui cui non piace prender posizione – che gli toccherà di fare sul fronte di due questioni assai delicate di politica estera. La prima è quella bomba nucleare che corrisponde al contrasto senza precedenti con Parigi. Lui da che parte sta, con gli incendiari che pensano di poter “spezzare le reni alla Francia”, o con coloro, Mattarella in testa, che giudicano sconsiderata la leggerezza con cui si è andati allo scontro con Macron? La seconda è la scelta che l’Italia è chiamata a fare di fronte al disastro in cui è precipitato il Venezuela. Conte intende ascoltare le ragioni di chi considera Nicolás Maduro, in continuità con Hugo Chávez, un affamatore del popolo e quello di Caracas un regime che non ha nulla di democratico – tesi spiegate con grande lucidità e passione da Pierferdinando Casini in Senato e condivise dalla Lega – o si fa condizionare dal tardo castrismo dei Di Battista, che ci vorrebbero allineare a Mosca, Pechino e Ankara nel dare pollice verso all’autoproclamazione del presidente del Parlamento venezuelano Juan Guaidò a presidente ad interim della Repubblica bolivariana, primo atto per andare verso libere elezioni? Nel primo come nel secondo caso, finora “l’avvocato degli italiani” si è comportato come quei difensori d’ufficio che chiedono la “clemenza della Corte”. Ha patinato, evitando di esporsi. Con i francesi ha osato un po’ di più, rilasciando a Davos – luogo dove notoriamente i potenti si riuniscono per imparare a esercitare “il cambiamento” – qualche dichiarazione pruriginosa, pensando con ciò di dimostrarsi “con il popolo e per il popolo” come ha orgogliosamente detto sulle nevi svizzere. Ma subito dopo è corso a colloquio informale con Angela Merkel – che aveva appena firmato ad Aquisgrana l’ennesimo patto con i francesi – forse nella speranza che ci mettesse una parolina con l’inquilino dell’Eliseo. Nella questione venezuelana ha invece lasciato il compito di non dire niente di compromettente al ministro degli Esteri, Moavero, confermando la vocazione a fare lo struzzo. Ma la politica estera è architrave fondamentale su cui poggia la consistenza e la credibilità di un premier prima ancora che di un governo. E non consiste nell’esercitare l’arte della diplomazia, che spetta alle feluche, ma nel riconoscere gli alleati dai nemici e nel sapere sempre da che parte stare.

Peccato. L’Italia avrebbe bisogno di una guida salda e autorevole. Tanto più se di un uomo privo di vincoli partitici in un governo rissoso, zeppo di dilettanti e percorso da momenti di follia come questo. Caro Presidente, i terreni su cui dimostrare di essere utile al Paese le sono noti, e qui gliene abbiamo ricordati alcuni, quelli che oggi sembrano più pressanti pur senza dimenticare che è sulla politica economica che si giocano sempre le sorti dei governi e il benessere o le avversità dei cittadini. Ci stupisca con un deciso colpo di reni. Saremo ben lieti di rimangiarci giudizi e sensazioni non propriamente lusinghieri.

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