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L'editoriale di TerzaRepubblica

La recessione travolge il Governo

LA RECESSIONE ORMAI PROSSIMA RISCHIA DI TRAVOLGERE IL GOVERNO E LA MAGGIORANZA 

18 gennaio 2019

Centoventisette giorni, poco più di un terzo di anno. Tanto è il tempo che ci separa dal voto europeo del 26 maggio. Un’enormità, politicamente parlando. Come lo impieghiamo? Cosa facciamo, oltre alla campagna elettorale che, complici le elezioni in qualche regione (tra febbraio e marzo in Abruzzo, Sardegna e Basilicata) e in quasi metà dei comuni (a maggio), si preannuncia lunghissima e cruenta? Possibile che il rivoluzionario “governo del cambiamento” assuma la postura più vecchia e meno commendevole tra le italiche abitudini politiche, cioè quella del “tirare a campare”? Eppure, ora che con il compromessino su quel che resta (poco, per fortuna) delle “epocali” riforme di “quota 100” e reddito di cittadinanza si è archiviato il capitolo della legge di bilancio e la relativa appendice del contenzioso con l’Europa, l’agenda dell’esecutivo appare desolatamente vuota e quella della maggioranza che lo sorregge pericolosamente piena di motivi di scontro e divisione. E il famoso “contratto”, già usurato dai primi sette mesi di governo, non è certo l’àncora cui l’alleanza pentaleghista può immaginare di attaccarsi per restare in piedi.

Queste considerazioni potrebbero spingerci a partecipare al gioco che tiene banco anche nei bar di provincia: quante probabilità ci sono che il patto 5stelle-Lega si rompa prima delle elezioni europee, e su quante invece può contare l’ipotesi che l’attuale assetto politico sia destinato a soccombere dopo il voto europeo, alla luce dei risultati, quali che saranno? Evitiamo di iscriverci alla riffa, per dedicarci a rispondere ad un altro tipo di domanda: l’Italia può permettersi di navigare a vista e senza meta nei prossimi quattro mesi e mezzo? Evidentemente no. Ma, come sempre capita nella vita, non basta avere ragione, bisogna che qualcuno te la dia. Ora questo qualcuno ha già fatto capolino, e anche se non si è ancora del tutto palesato, presto lo farà. L’ospite indesiderato si chiama “signor Recessione”, un mostro che negli ultimi dieci anni ci ha già fatto visita due volte, lasciando un segno tuttora indelebile sulla pelle della nostra economia – e quindi su tutti gli italiani – e che adesso è tornato per la terza volta a bussare alla nostra porta. In pochi, e noi tra questi, ci hanno fatto caso, avvisando per tempo che sarebbe stato opportuno prendere le necessarie contromisure. Ma il fragore assordante delle urla belluine che sostanziano il populismo made in Italy, da un lato, e dall’altro l’effetto distraente delle infinite discussioni inutili che da anni devastano il dibattito pubblico (si fa per dire) e che negli ultimi tempi si sono infittite per la crescente mediocrità dei protagonisti, hanno impedito di cogliere le grida d’allarme. Però, quando tra pochi giorni l’Istat ci darà la prima stima sull’andamento del pil nel quarto trimestre 2018 – il dato pesantemente negativo sulla produzione industriale a novembre ci dice che la probabilità che anche quei tre mesi si chiudano con il segno meno come i precedenti tre, è altissima – di colpo ciò che fin qui abbiamo (stupidamente) esorcizzato si paleserà, e ci toccherà prendere coscienza che saremo entrati in quella congiuntura che gli economisti chiamano pudicamente “recessione tecnica”. Anticamera, se anche il primo trimestre 2019 sarà negativo come tutto lascia (ahinoi) presagire, della recessione strutturale. Altro che “nuovo boom economico stile anni Sessanta” pronosticato da Di Maio (ma va perdonato, in quegli anni non era ancora nato e non sa di quale classe dirigente quel boom sia figlio), le stime che ora girano ci dicono che, bene che vada, nel 2019 la crescita non andrà oltre il mezzo punto (la Banca d’Italia ha appena ritoccato le stime, portandole a +0,6%) rispetto al punto pieno che il governo ha indicato nella manovra finanziaria.

Uno scenario, questo, che rischia di aggravarsi se l’economia italiana, oltre a patire il rallentamento endogeno in atto – dovuto al crollo della fiducia di imprenditori, investitori e consumatori che la politica ha determinato con le sue inutili forzature – sarà vittima anche di fattori di crisi esogeni. Il primo dei quali è la stagnazione europea, a sua volta indotta dai gravi problemi internazionali che il Vecchio Continente sta vivendo, dalla Brexit alla guerra commerciale innescata da Trump. Il rallentamento più vistoso è quello tedesco – cui stanno seguendo quelli di altre economie continentali, che hanno nella prolungata crisi sociale francese la maggiore evidenza – ed è anche quello maggiormente gravido di conseguenze per noi, visto che siamo un paese esportatore che ha nell’Europa, e in particolare nella Germania, i suoi principali mercati di sbocco.

Su questo punto, però, è bene essere chiari: la nostra è recessione, per ora congiunturale ma che rischia seriamente di diventare strutturale, mentre quella degli altri è una frenata che porta alla stagnazione. Si tratta di due situazioni diverse, e dunque nessuno domani ci venga a raccontare che la barca Italia è preda dei venti recessivi per gli stessi motivi e con la stessa forza delle altre. Dunque, nessuno si azzardi a considerare il “male comune” un “mezzo gaudio”, non fosse altro perché chi ci ha provato nel passato più recente (Renzi) o più remoto (Berlusconi), ne ha pagato caro le conseguenze. Ma, soprattutto, guai a fare dei problemi altrui il proprio alibi: la nostra è prima di tutto una crisi italocentrica, e non averne consapevolezza significa impedire al paese di individuare i rimedi. Non parliamo tanto delle manovrine correttive che sono già state evocate immaginando che la recessione faccia sballare i conti della manovra – per le tanto bistrattate regole europee, che cambiano a seconda del verso della congiuntura, potrebbero anche non essere necessarie – quanto di una radicale revisione dell’impostazione fin qui data alla politica economica.

Ma è immaginabile che la maggioranza gialloverde e il governo che ha espresso – la cui cifra nazional-populista è netta – abbia la volontà politica e possieda le risorse intellettuali, se non per una conversione a U, almeno per cambiare strada? È vero che tanto Salvini quanto Di Maio hanno mostrato di avere una notevole dose di duttilità, specie se paragonata con i decibel dello loro “sparate”, anche se ci sembra più appropriato definirla spregiudicatezza che pragmatismo. Ma, al di là di come la si voglia etichettare, è sufficiente? E può essere un contenitore omnibus come è il “decreto semplificazioni”, che con oltre un migliaio di emendamenti si sta trasformando in una sorta di finanziaria bis, lo strumento legislativo adatto per iniettare nella nostra economia gli anticorpi necessari a combattere la recessione? O alla fine si adotterà il classico schema di gioco della “palla lunga”, rimandando a dopo le elezioni europee, e quindi di fatto alla prossima legge di bilancio, il momento in cui si dovranno per forza fare i conti con l’aggravato stato di salute dell’economia, magari sperando che nel frattempo il solito stellone italico produca qualche insperata novità positiva?

Tutto dipenderà da come sarà l’impatto, emotivo prima ancora che pratico, di “mister Recessione” con il Paese. Se nella società si avrà piena coscienza di essere di nuovo in crisi, se l’incertezza lascerà il posto alla consapevolezza, allora la politica sarà costretta a guardare in faccia quella realtà da cui finora è sfuggita, e avrà solo due strade davanti a sé: far finta di nulla o comunque minimizzare; farsene carico, il che si dovrà tradurre nell’imboccare strade fin qui inesplorate. Nel primo caso finirà per essere travolta non soltanto l’alleanza tra 5stelle e Lega, ma anche le stesse forze politiche singolarmente intese, che già nelle urne delle europee potrebbero trovare entrambe una spiacevole sorpresa. Nel secondo caso, la presa di coscienza può portare o a rinsaldare il patto pentaleghista, riscrivendo il contratto e accettando, specie da parte grillina, di fare cose, come un massiccio piano di infrastrutture, che finora hanno schifato, o più probabilmente a chiudere velocemente – se non prima del 26 maggio, subito dopo – l’attuale esperienza di governo, ridefinendo il perimetro della maggioranza e varando un nuovo governo. In quest’ultimo caso, visti i rapporti di forza nell’attuale parlamento, le opzioni sono soltanto due: un accordo 5stelle-Pd o la ricomposizione del centro-destra, cui però deve aggiungersi un pezzo secessionista di 5stelle (o di soli peones o capeggiato da Di Maio). In entrambi i casi soluzioni complicate – la prima più ancora della seconda – ma che il mutato sentimento popolare potrebbe rendere in qualche modo praticabili.

Cosa davvero potrà succedere, non lo sappiamo. Ma una cosa è certa: con il ritorno di “mister Recessione”, quell’assetto politico che frettolosamente e arbitrariamente è stata chiamata Terza Repubblica, subirà una pesante e forse letale battuta d’arresto. Fin d’ora pronunciamo il nostro amen.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.