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L'editoriale di TerzaRepubblica

Deriva argentina

INUTILE EVOCARE SPETTRI CHE NON ESISTONO, L’UNICO CHE DOVREMMO TEMERE E' LA DERIVA ARGENTINA

15 ottobre 2018

La “troika”, pur in versione informale, boccia l’Italia senza appello. In una sola giornata il presidente della Bce, Mario Draghi, ha detto senza mezzi termini che per i paesi fortemente indebitati è necessaria la “piena adesione” al patto di stabilità Ue, ma il Fondo Monetario certifica che stiamo andando in direzione esattamente opposta e il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, suggella il tutto affermando che “l’Italia non rispetta la parola data”, marchiandoci a fuoco come inaffidabili. Tuttavia, di fronte alla bocciatura che non un solo analista, centro di previsione, organismo indipendente o internazionale ha risparmiato alla sua manovra di bilancio – caso di unanimità di giudizio forse più unico che raro – il governo pentaleghista da un lato fa spallucce, e dall’altro reagisce evocando alcuni spettri, tutti imparentati tra loro: il complotto del solito Soros che trama perché vuole portarsi via le nostre aziende per pochi spiccioli; la sbraitante reazione dei vecchi poteri, dalla Banca d’Italia che non ha vigilato sui banchieri cattivi all’Inps, il cui presidente fa politica, tutta gente che nessuno ha votato e che prima di parlare dovrebbe farsi eleggere; il tentativo, per mano degli eurocrati, di fermare la rivoluzionaria decisione di porre fine alla politica dell’austerità, stile Monti, imposta dall’Europa germano e franco centrica. Per poi concludere con l’inno, urlato da un balcone di palazzo Chigi o propalato in maniche di camicia per strada acclamati da cittadini festanti: “noi ascoltiamo il popolo, e il popolo è con noi”.
In realtà sono almeno cinque gli spettri che si aggirano in un’Italia inquieta per come si stanno mettendo le cose, ma ancora in larga parte inconsapevole della “tempesta perfetta” che le si sta per abbattere addosso. Quattro sono falsi, uno è vero. Il primo è il complotto della grande finanza internazionale, ed ha le sembianze di George Soros, il miliardario che ogni teoria complottistico-speculativa che si rispetti da anni erge a Grande Burattinaio. Certo Soros esiste e muove capitali sui mercati – e quindi per definizione specula, cioè si procura denaro con il denaro – e come lui molti altri. È falso, invece, che ciò che accade per effetto dello spread alla nostra capacità di finanziare il debito pubblico, e al costo che paghiamo per riuscirci (tassi passivi), sia frutto di una perversa macchinazione di qualche Paperone senza scrupoli. È vero esattamente il contrario: sono le scelte del governo, e il modo con cui vengono presentate, che offrono il fianco alla speculazione di fare con profitto il suo (legittimo) mestiere. Ma tant’è, la narrazione prende la strada che si ritiene elettoralmente più pagante, quella autoassolutoria della cospirazione.
Non contenti di aver evocato lo spettro di e dei Soros, ecco aleggiare quello dei tecnici, da Visco e Rossi di Bankitalia a Tito Boeri dell’Inps passando per i mezzemaniche più anonimi della Corte dei conti e dell’Ufficio parlamentare di bilancio, l’authority indipendente cui è affidata una funzione di vigilanza sulla finanza pubblica, la quale ha osato negare la validazione del programma posto dal governo alla base della Nota di aggiornamento al Def. Tutti accusati di ordire il sabotaggio del “governo del cambiamento”, in difesa di innominabili interessi, da chi non conosce la distinzione tra il Governo e lo Stato e non riconosce l’autonomia delle autorità di controllo, specie quando l’esercizio delle loro funzioni infastidisce. A questo si aggiungano le parole offensive spese all’indirizzo degli eurocrati di Bruxelles, a cominciare da Juncker, cui è stato apertamente dato dell’ubriacone, e quelle sprezzanti usate dal ministro Savona nei confronti di Draghi. Accuse così scomposte – fino al punto di rinfacciare a costoro di non avere titolo a parlare perché non legittimati dal voto popolare, come se il governatore della banca centrale dovesse essere eletto dal popolo – da aver richiesto l’intervento, più che mai opportuno, del presidente della Repubblica.
Ma non finisce qui. Perché passare dal Grande Speculatore e dai Grandi Sabotatori al Grande Affamatore, il passo è breve. Naturalmente il volto che lo incarna è quello di Mario Monti, su cui è stata rovesciata, già da Renzi a onor del vero, ogni sorta di responsabilità nazionale. Manca forse solo l’esclusione dell’Italia dai mondiali di calcio, e poi al tecnico fattosi politico è stato attribuito di tutto. Ora, i lettori di antica data di TerzaRepubblica ricorderanno che negli anni del governo Monti, pur avendo noi salutato con favore la caduta del governo Berlusconi e invocato una discontinuità istituzionale che doveva essere la premessa di una nuova stagione della Repubblica, non gli risparmiammo critiche. Proprio perché dopo aver realizzato la riforma delle pensioni per salvarci dal default – meritoriamente: lo dicemmo allora e lo riconfermiamo oggi, a maggior ragione visto che si vuole metter mano alla Fornero – Monti non fu capace di andare oltre, sia nel traghettare con riforme strutturali la nostra economia verso una fase di sviluppo che le consentisse di recuperare il gap di crescita accumulato fin dall’inizio degli anni Novanta, sia nel porre le basi della Terza Repubblica attraverso cambiamenti istituzionali che solo un’Assemblea Costituente poteva (e potrebbe) assicurarci. Non siamo dunque sospettabili di partigianeria nei confronti del senatore a vita, tanto che gli suggerimmo, inascoltati, di dimettersi da quella carica rinunciando alle conseguenti guarentigie nel momento in cui decise di presentarsi alle elezioni. Ma tutto questo non ci impedisce di gridare allo scandalo quando si vuole far passare Monti e il suo governo, e in particolare la Fornero, come affamatori del popolo. Soprattutto, è l’idea che l’Italia abbia passato le colonne d’Ercole dell’austerità a favore del risanamento della finanza pubblica, e che per questo gli italiani abbiano dovuto tirare la cinghia, che risulta falsa. Lo attestano i numeri: spesa pubblica e debito sono costantemente cresciuti, sia in valore assoluto che in proporzione al pil, e l’unico vero intervento risanatorio è stato proprio quello previdenziale che non a caso ora si vuole almeno in parte rimuovere. Questo non significa che nell’ultimo decennio il ceto medio non si sia impoverito e che l’area della povertà relativa si sia allargata. Ma ciò è dovuto alle due recessioni, quella mondiale del 2008 e quella successiva europea, che hanno visto il nostro paese pagare un prezzo molto più alto degli altri per colpa delle sciagurate politiche – economiche, sociali e istituzionali – della Seconda Repubblica e di quella bis che dal 2011 è seguita, e del declino strutturale che esse hanno comportato proprio mentre i processi di globalizzazione cambiavano in modo radicale i paradigmi nel mondo.
Ecco, questa confusione nell’analisi di ciò che è successo nel nostro recente e meno recente passato, è ciò che apre le porte al vero spettro, questo sì reale, che incombe su di noi: il pericolo argentino. Esso lo si trova sì negli atteggiamenti peronisti del populismo sovranista di casa nostra, ma è soprattutto nella deriva che la gestione del debito rischia di prendere. Le sparate di Salvini e Di Maio possono, pur con sforzo, essere considerate un fatto estetico, ed essere ricondotte alle cattive abitudini italiche, come lo era il bunga-bunga berlusconiano. Ma le conseguenze delle forzature, verbali prima ancora che di merito, nel maneggiare i conti pubblici, no, quelle non si possono ridurre a folclore. Anche perché non sono disposti a derubricarle così i mercati, i partner europei e i maggiori organismi internazionali, da Bce a Fmi. E se non ci si ferma in tempo, la deriva argentina è davvero dietro l’angolo. Perché se il 26 ottobre le società di rating procederanno al downgrade che tutti gli analisti si aspettano – c’è solo da capire se oltre a farci scendere di un gradino sposteranno l’outlook (cioè le attese future) in negativo o lo manterranno stabile – e ciò portasse lo spread a quota 400 punti (che in tempi di Quantitative Easing varrebbero come i 570 del novembre 2011), il credit crunch (rarefazione del credito bancario) già ora strisciante diventerebbe soffocante, innescando una nuova fase recessiva. E questa volta l’Italia vivrebbe una recessione non più condivisa con gli altri paesi europei e occidentali, ma tutta sua. E allora ecco che lo spettro argentino diventerebbe una drammatica realtà. Dio non voglia, ma prepariamoci.

 

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