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L'editoriale di TerzaRepubblica

Consigli (non richiesti) a Salvini e Di Maio

CARI SALVINI E DI MAIO: SE AGLI ITALIANI RACCONTATE BALLE E GLI FATE PERDERE SOLDI ADDIO CONSENSO

 

28 settembre 2018

Quelli che seguono sono consigli, non richiesti, indirizzati a Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Valutazioni politiche che ci vengono sollecitate dallo spettacolo di un governo che, irresponsabilmente, decide con estrema facilità e narcisistico autocompiacimento di sfidare i mercati e l’Europa con una manovra ardita nei numeri ma povera di idee come non mai, e nello stesso tempo, con altrettanta irresponsabilità, fatica maledettamente a decidere – pur dichiarando ad ogni piè sospinto di averlo fatto, naturalmente in nome e per il bene dei cittadini – di fronte ad una emergenza come quella di Genova. Il caso del decreto per la ricostruzione del ponte Morandi è diventato addirittura una favola, con il testo uscito dal consiglio dei ministri “salvo intese” e arrivato alla Ragioneria dello Stato con i puntini di sospensione al posto delle cifre. Per poi, di bozza in bozza, arrivare alla firma del Capo dello Stato, dopo due settimane di “iter” senza precedenti, con le risorse tagliate e i tempi di ricostruzione allungati e, soprattutto, ancora privo del nome del commissario straordinario, non essendo riusciti ad individuare una figura al di sopra delle parti e con la giusta conoscenza dei meccanismi burocratici per evitare di rimanerne vittima. Altro che tecnocrati cattivi, trattasi di clamoroso caso di insipienza politica e inettitudine amministrativa: Genova, già mortalmente colpita dalla tragedia e ferita dalle conseguenze che ha provocato, si è vista costretta a subire, attonita e rabbiosa, ad un vero e proprio scempio della sua pazienza. Specie dopo che, il 14 settembre, a un mese dalla tragedia, il presidente del Consiglio non aveva trovato niente di meglio da fare che andare a commemorare le vittime del ponte sventolando dei fogli che asseriva essere il testo del decreto, assicurando che di lì a poche ore sarebbe diventato legge.

Nelle stesse settimane è cominciato un altro deplorevole spettacolo, quello relativo all’aggiornamento del documento di programmazione economica e finanziaria (Def), passaggio propedeutico per arrivare alla manovra di bilancio. Anche in questo caso abbiamo assistito per settimane ad un balletto di numeri, lanciati lì come se si partecipasse ad una riffa, con i ministri che si dilaniavano intorno ai decimali del rapporto deficit-pil. Senza tenere minimamente conto che, al di là di ogni altra valutazione, ormai da molti anni le previsioni indicate nei documenti ufficiali e fatte digerire a Bruxelles non hanno poi retto a consuntivo. E che, quindi, se proprio si voleva fare deficit spending, non era affatto necessario dirlo preventivamente. Invece, prima lo si è urlato – causando un rialzo dello spread e quindi dei tassi che ci è costato 5 miliardi – e poi lo si è messo nero su bianco nel Def, scegliendo di fermare la pallina della roulette del deficit-pil alla casella del 2,4%, otto decimi di più di quanto il ministro Tria aveva indicato per settimane come scelta prudente e addirittura un punto e sei decimi in più dello 0,8% che pure l’Italia si era impegnata a fare con i partner europei. Una forzatura, fatta sulla base di un impossibile paragone con la Francia non fosse altro perché il loro debito pubblico è al 97% del pil e il nostro al 131%, che ora vedremo cosa ci costerà in termini di reazione sia dei mercati – quella immediata, con lo spread salito di 50 punti a quota 280, per poi ripiegare a 267, e la Borsa che ha perso il 3,7%, pur pesante, è solo un inizio – sia dell’Europa, la quale aspetterà a pronunciarsi ufficialmente dopo il varo della legge di stabilità, tra quindici giorni. Soltanto quando se ne conosceranno i dettagli si capirà se la manovra, che si avvia ad essere intorno ai 35 miliardi, scatenerà o meno la “tempesta perfetta”, la quale potrebbe avere il suo culmine con la decisione delle agenzie di rating di declassare a “spazzatura” i titoli di Stato italiani, che così non potranno più essere acquistati dalla Bce o utilizzati come collaterale da parte delle banche nelle operazioni di rifinanziamento. Un salto nel buio senza precedenti che a sua volta potrebbe indurre i falchi d’Europa, e forse la stessa Bce, a suggerire l’intervento, in stile greco, della troika.

Nell’attesa, vale quanto in questa sede abbiamo detto e ripetuto: al di là della quantità di deficit sbandierata dai grillini come una grande vittoria al popolo (?) riunito sotto il balcone di palazzo Chigi – meno male che non era piazza Venezia… – nel merito non sono quelle annunciate le scelte di politica economica che servono ad un paese che viene da un quarto di secolo di crescita asfittica, che ha pagato la crisi finanziaria mondiale del 2008 con la recessione più lunga e più grave di qualunque altro in Occidente e che ora, dopo una breve ripresina, rincula e marcia ad una velocità pari alla metà di quella media in Europa. L’Italia deve colmare il gap di sviluppo accumulato in un quarto di secolo, e quindi ha bisogno di investimenti, non di misure assistenziali. Se deficit si deve fare – e si deve fare – ha da essere in conto capitale, non sotto forma di spesa corrente improduttiva.

Ed è qui, cari Salvini e Di Maio, che casca l’asino. Perché delle due l’una: o siete davvero convinti che l’economia reale trarrà concreti benefici dalla manovra – immaginiamo lo sia più il leader pentastellato che quello leghista – e allora l’asino cascherà quando ci si accorgerà che il combinato disposto dell’effetto nullo sui consumi e quindi sul pil dei sussidi elargiti (ricordate l’incremento della domanda interna che dovevano scatenare gli 80 euro di Renzi? Ecco…) e dei costi del pollice verso dell’Europa e dei mercati avrà prodotto un disastro; oppure, viceversa, giocate sulla possibilità di incassare nel breve una cedola elettorale accusando la Ue, la Bce e gli gnomi della finanza di mettervi i bastoni nelle ruote per conto di fantomatici poteri forti sovranazionali – e qui la nostra immaginazione vede all’opera più Salvini che Di Maio – e allora l’asino casca perché, non vi illudete, gli italiani su questo non vi seguono. Potranno avercela con gli eurocrati di Bruxelles, potranno tacciare i tedeschi di egoismo e maledire tutti gli altri paesi perché ritengono che ci lascino soli al cospetto dello sbarco dei migranti, potranno maledire l’euro e avere nostalgia della lira, ma non hanno alcun interesse né voglia di mettersi in guerra con chicchessia. Una cosa è scaricare a parole sui vincoli esterni i limiti interni, un’altra è pagare il conto di questa contraddizione.

Di certo, caro Salvini, non lo vogliono i cittadini del Nord più produttivo e ricco, siano essi imprenditori, professionisti, partite Iva o lavoratori dipendenti. Cioè la base elettorale, esistente e potenziale, della Lega. Lei ha fatto breccia facendo leva sulle loro paure, quella di essere invasi da gente “foresta” e quella di sentirsi defraudati e minacciati da economie lontane che la globalizzazione rende capaci di praticare una concorrenza che si ritiene sleale. Sono timori che è giusto ascoltare e comprendere, ma che non vanno vellicati per renderli una sinecura elettorale. Sia perché così si fa loro del male, e sia perché non essendoci risposte praticabili, si finirà per renderli ben presto frustrati. Guardi, Salvini, come ha fatto presto Renzi a dilapidare un patrimonio di consensi che sembrava inarrestabile e ci faccia sopra una valutazione a mente fredda. Era convincente, come a suo tempo lo era stato Berlusconi e come oggi è indubbiamente lei. Ma affidarsi alla sola affabulazione non basta. Non regge alla distanza. E pensi che loro due, populisti non meno di lei – la differenza è che loro lo dissimulavano, lei lo rivendica – sono forse più bravi nel raccontare le bugie. Eppure, oggi sono ridotti a comparse. Se vuole davvero guidare in modo duraturo questo benedetto Paese, caro Salvini, dismetta le sue felpe e indossi abiti più moderati, che il vero cambiamento si fa raccontando agli italiani la verità – scomoda – su come stanno davvero le cose. E di certo non lo si può fare con degli improvvisati come compagni di strada. E se proprio ci tiene all’amicizia con Di Maio, uno che l’abito moderato l’ha cucito sulla pelle fin dalla nascita ma è circondato da invasati che ogni due per tre lo costringono a dire a lei “aiutami perché i miei non li tengo più” facendole commettere errori esiziali con il cosiddetto “decreto dignità” e ora con il reddito di cittadinanza, lo aiuti ad autonomizzarsi. Tanto quando, presto o tardi, questo governo sarà arrivato al capolinea e con essa l’alleanza pentaleghista che lei, Salvini, ha improvvidamente cementato seguendo i grillini sulla forzatura del deficit al 2,4%, al giovanotto campano il fuoco amico non sarà risparmiato, con Di Battista che ha già preso la rincorsa per sostituirlo. La storia del sindaco di Parma Pizzarotti, seppure in scala ridotta, insegna che si può fare.

Ci rendiamo conto, per la lunga esperienza che abbiamo alle spalle, che parlare così ai vincenti del momento rende improbabile la possibilità che le nostre parole siano ascoltate. Ma è proprio in circostanze come queste che si vede la differenza tra chi è meteora e chi può aspirare ad essere highlander. E noi siamo preoccupati che per l’Italia, di meteora in meteora, il Nuovo Rinascimento cui vorremmo vederla finalmente consegnata si allontani, per sprofondare sempre più nell’oscurità del Medioevo prossimo venturo.

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