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L'editoriale di TerzaRepubblica

L'economia tra Draghi e Tria

IL MONITO DI DRAGHI AIUTA TRIA A RESISTERE MA PER LA NOSTRA ECONOMIA NON BASTA NON FARE NIENTE

14 settembre 2018

“Le parole in questi mesi sono cambiate molte volte, e sfortunatamente abbiamo visto che hanno creato qualche danno; ora aspettiamo i fatti”, sentenzia il presidente della Bce, Mario Draghi, parlando dell’Italia e del suo governo a trazione sovranista. “L’Italia è oggi un problema”, rincara la dose il commissario Ue agli Affari Monetari, Pierre Moscovici, alla vigilia della presentazione della manovra finanziaria di Roma. “L’abbaiare dei populisti italiani potrebbe essere peggiore del loro morso”, suggella il Financial Times, che definisce “romanizzati” i “barbari” pentaleghisti che hanno fatto dell’Italia l’incognita dell’Europa, per cui quella del voto contro Orban può considerarsi la prova generale delle grandi manovre che preludono alla guerra senza esclusione di colpi tra europeisti e nazionalisti, che troverà il suo verdetto nelle elezioni europee di maggio prossimo.
Abbiamo come l’impressione – ed è un eufemismo – che il nostro paese sia circondato, e che in mezzo ci si sia messo con le proprie mani. In particolare, colpisce il giudizio senza appello di un uomo solitamente molto cauto nelle espressioni pubbliche come Draghi. Probabilmente ha fatto premio la stizza, più che giustificata, per essersi sentito accusare di “tradimento” per aver annunciato la fine della politica monetaria ultra espansiva, che tanto comodo ha fatto all’Italia – anche se ne ha sfruttato poco e male le conseguenze positive – e per di più da parte di coloro che negli stessi anni del Quantitative Easing hanno riempito di contumelie la Bce come punta di diamante dei poteri forti, delle élite e degli establishment europei, marci e affamatori dei cittadini. In tutti i casi, Draghi è stato inequivocabile: se il governo italiano è quello che parla per bocca dei ministri Tria e Moavero – lui, elegantemente, ha aggiunto anche il presidente Conte – affermando e ribadendo la necessità che si rispettino le regole comunitarie fino al punto da dover minacciare le dimissioni, allora va tutto bene; ma se, viceversa, l’Italia è quella delle “sparate” anti europee e delle evocate (anche se poi smentite) forzature sui conti pubblici, venute da entrambi i partiti della maggioranza giallo-verde, allora non sarà la Bce di Draghi a tirarla fuori dai guai quando i mercati la metteranno in ginocchio.
Vedremo presto, con l’aggiornamento del documento di programmazione economico-finanziaria (Def) e poi con la legge di Stabilità – i famosi “fatti” – quale delle due Italie avrà il sopravvento, fermo restando che se sarà la seconda e saranno guai, nessuno potrà accampare scuse e dire che non lo sapeva. Deve essere chiaro che non basta evitare di fare fesserie. Il Paese è in una fase delicata di transizione – è uscito dalla lunghissima recessione post “caso Lehman”, di cui proprio in questi giorni cade il decennale, ma non è ancora entrato pienamente in una nuova fase di sviluppo, tanto che la ripresa rallenta facendosi sempre più “ripresina” – e non si può permettere il “non governo”. Come ha sottolineato con efficacia l’economista Francesco Daveri, nei suoi primi cento giorni il “governo del cambiamento” ha adottato pochissimi provvedimenti, e nessuno, fin qui, che aiutasse l’economia italiana ad affrontare questa difficile congiuntura, spegnendo le fiammelle di fiducia degli imprenditori e di interesse degli investitori che pur faticosamente si erano accese dalla metà del 2017 in avanti. Certo, c’è stato il cosiddetto “decreto dignità”, che però, a torto o ragione, è stato visto come punitivo per le imprese senza per questo essere capace di ridare la dignità ai lavoratori che l’avessero persa o la sentissero minacciata. E questo mentre il trend economico volgeva al brutto, fino a far ipotizzare – si vedano i dati della produzione industriale – una nuova e rapida discesa negli inferi della recessione. E se l’industria non va bene, il costo del non far niente per aiutarla si moltiplica esponenzialmente. In pipeline c’erano gli annunciati provvedimenti fiscali voluti dalla Lega come antipasto della flat tax – sia la riforma fiscale per le piccole imprese e società di persone, cioè l’ampliamento del regime forfettario di tassazione ad una platea più ampia, sia la sanatoria che non si voleva chiamare condono – ma fin qui non si è visto nulla, anche perché ad essi si è contrapposto il desiderato (dai 5stelle) reddito di cittadinanza, e la competizione interna al governo ha finito per risultare un gioco a somma zero. Se ne riparlerà nella legge di bilancio, ma dati i vincoli – sempre che vinca la linea quirinalizia di Tria – gli spazi di manovra saranno esigui e le scelte saranno poco più che simboliche. Con tutto quello che potrà significare per la tenuta della maggioranza di governo.
Tenderemmo invece ad escludere lo scenario, diabolico, che taluno descrive, e cioè che il governo intenda scientemente lasciar cadere l’economia in recessione per poi avere maggiore forza con Bruxelles nel chiedere (pretendere) la flessibilità nell’espansione del deficit. Lo escludiamo non per altro, ma ci sembra troppa sofisticata come idea perché le onorevoli mediocrità che ci governano siano capaci di pensarla. E se così non sarà, uscirà dal cilindro della manovra finanziaria qualcosa di decente, capace di risospingere l’economia verso la crescita?
Tria, che con l’uscita a suo favore di Draghi e la reiterata copertura di Mattarella, ha mostrato di non essere solo, dovrà attingere al miglior riformismo socialista che per una vita ha frequentato, e soprattutto dovrà mettere in campo un accorto gradualismo, come gli ha giustamente suggerito l’amico Gianfranco Polillo. Perché se da un lato dovrà evitare a tutti i costi di imitare Alexis Tsipras, riuscendo a depotenziare gli effetti devastanti che ci sarebbero se prendesse alla lettera il “contratto di governo”, che dei vincoli esterni – l’Europa e i mercati – se ne fotte, dall’altro, però, non potrà fare del solo contenimento del deficit e del debito pubblico il suo mantra. Non fosse altro perché i risultati delle elezioni del 4 marzo e ciò che ci aspetta nella tenzone europea prossima, richiedono una politica (e la relativa “narrazione”) riformista che, senza scimmiottare il populismo – come hanno tragicamente fatto nel passato sia Berlusconi che Renzi – (ri)dia una prospettiva diversa a chi nelle urne va per sfogare rabbie e frustrazioni, tra l’altro in buona misura motivate.
Non sfugga, però, che il riflusso populista è tema non solo italiano. Negli Stati Uniti si è capito che Donald Trump non è un accidente della storia, ma il figlio della classe dirigente che lo ha preceduto, che ha tradito il mandato popolare. Ricordando il 15 settembre 2008 quando Washington lasciò fallire la banca d’affari Lehman Brothers, il quindicinale New York Magazine sostiene che sia stata proprio la crisi finanziaria mondiale di allora, dalla quale, per mano o nonostante il progressista di Barack Obama, sono usciti bene i banchieri e male i risparmiatori, a innescare il ciclo populista. C’è qualche esagerazione in questa ricostruzione dei fatti, come dimostra la definizione di “ordine economico cleptocratico” che viene usata per definire l’establishment finanziario del dollaro, ma è però vera l’affermazione che da quel momento sono andati in frantumi i due capisaldi che hanno retto il consenso sociale in tutto l’Occidente dopo la seconda guerra mondiale: un posto di lavoro sicuro e la certezza di potersi acquistare e mantenere una casa.
La storia italiana (ed europea) non è molto diversa. La recessione ha corroso i redditi (e in parte anche i risparmi) del ceto medio, e la classe dirigente che è venuta dopo a imporre sacrifici e, soprattutto, a raccontare che tutto si sarebbe aggiustato o, peggio, che era già a posto, si è caricato sulle spalle la responsabilità di un fallimento storico. Ed ecco che chi le ha dato dell’infame ha vinto le elezioni. Per questo non basta sperare che passi la nottata. Meno male che Tria c’è.

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