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L'editoriale di TerzaRepubblica

L'Europa tra migranti ed economia

L’EUROPA SI DIVIDE SUI MIGRANTI, MA L’ECONOMIA FRENA E LA POLITICA MUSCOLARE NON PAGA

29 giugno 2018

Siamo sicuri che l’Italia e l’Europa stiano affrontando le loro vere priorità? C’è grande pathos intorno al tema dei migranti e della loro accoglienza (o meno), cui è stato dedicato il tanto atteso Consiglio europeo, che non sembra aver prodotto alcun risultato significativo, tanto che le regole del gioco cosidette di Dublino sono destinate a rimanere pressoché intatte. Nonostante che i numeri ci dicano chiaramente come negli ultimi tempi siano rallentati i flussi migratori – dei profughi e dei migranti per ragioni economiche – nessuno può certo negare che si tratti di un problema strategico, cui è doveroso dare risposte serie e concrete. Ma ci permettiamo di dubitare che la questione meriti la preminenza che gli viene attribuita – da noi è pare l’unica voce all’ordine del giorno dell’esecutivo gialloverde – e soprattutto che si giustifichi la concitazione con cui se ne discute a livello di governi e con cui viene data in pasto all’opinione pubblica. Tanto che ha ragione Berlusconi – pensate un po’… – quando afferma che la politica estera italiana “non può ridursi ad un’esibizione muscolare”.

Sia chiaro, da parte nostra non c’è alcun deficit valutativo: si tratta di un nodo cruciale – perché strutturale, e dunque destinato a durare a lungo – nell’ambito del processo di globalizzazione in corso, che modificando gli equilibri demografici insieme con quelli relativi alla produzione e al consumo della ricchezza mondiale, innesca inevitabilmente migrazioni di massa. Al cospetto delle quali, le risposte non possono che essere individuate e strutturate in sedi largamente rappresentative quando non planetarie. Dunque, nessuna sottovalutazione del problema, anzi. Noi, però, quello su cui intendiamo attirare l’attenzione è ciò che manca, o comunque pare largamente sottovalutato, nelle agende politiche e istituzionali così come nella coscienza dei cittadini. E cioè la priorità rappresentata dal problema del rallentamento dello sviluppo economico. Che è cosa che riguarda l’Italia in primis, visto che il nostro paese è più indietro degli altri, ma anche tutta l’Europa. Ed è l’altra faccia della medaglia dello stesso tema immigrazione, visto che saremo in grado di reggere – e per molti versi avremo bisogno di registrare – un certo flusso di migranti piuttosto che un altro a seconda del volume di crescita che le diverse economie continentali riescono a sviluppare. Così come è, l’andamento del pil, l’altra faccia della medaglia del nodo delle finanze pubbliche dei vari paesi e della misura del loro eventuale scostamento dai parametri Ue, questione finora considerata prioritaria in Europa. Perché invece che tirare la coperta corta della rigidità e della flessibilità dei conti pubblici, l’Europa non si concentra sulla inderogabile necessità di pigiare sull’acceleratore della crescita, dalla cui spinta potrebbe trovare tutte le risposte che la mediazione politica tra interessi contrapposti – tutti legittimi – non è in grado di offrire?

Guardiamo per un momento all’Italia. La nostra economia non era ancora pienamente uscita dalla lunga e drammatica fase recessiva, passando dalla ripresina congiunturale alla crescita strutturale di dimensione pari a quella media europea, che già le polveri si sono bagnate. Nel primo trimestre 2018 il pil è cresciuto dello 0,3% in termini congiunturali (cioè rispetto al trimestre precedente), e del’1,4% sul piano tendenziale. Poco in assoluto, e questo spiega perchè in questi giorni la Confindustria, disponendo dei dati semestrali, ha previsto che alla fine dell’anno non andremo oltre il +1,3%. E poco in confronto a quanto accade nell’area euro, che sempre a livello trimestrale cresce dello 0,4% congiunturale e del 2,5% tendenziale (2,3% la Germania, 2,2% la Francia). Ma ciò che più conta è il trend, e tutti gli indicatori fanno presumere che quella che ci aspetta dovrà essere descritta come la fase della frenata, tanto che il già poco esaltante 1,3% di crescita del 2018 per il prossimo anno è destinato a peggiorare. Sono soprattutto le aspettative a tirarci brutti scherzi. Lasciamo perdere per un attimo quelle relative alla stabilità politica, che pure incidono molto, specie sullo spread. La vera doccia fredda verrà dalla fine, ormai annunciata e conclamata, della politica monetaria espansiva. La Bce ha confermato il piano di rientro dal Quantitative Easing, cioè il programma di acquisti netti di titoli di Stato per calmierare tassi e spread: 30 miliardi fino a settembre, poi 15 miliardi da settembre a dicembre e infine la definitiva archiviazione della misura (salvo interventi straordinari, da farsi, però, solo con i rendimenti dei titoli già emessi, e quindi in misura molto limitata). Dunque, i tassi torneranno a salire, seppur gradualmente, e nell’autunno del 2019 finirà anche il mandato di Mario Draghi, l’unico italiano che in sede europea conta davvero. Ergo, via la rete di protezione, altro che piani di spesa per almeno 100 miliardi. Attenzione, tutte cose previste e scontate, e per certi versi pure necessarie. Ma proprio per questo è ancor più grave che nessuno in Italia – né governo, né opposizioni, né classi dirigenti diffuse – si sia posto e si ponga il problema di come affrontare per tempo le conseguenze di questo cambio di paradigma. Che, sia chiaro, non inciderà solo sulla finanza pubblica e quindi sulle politiche di bilancio, ma anche sulla carne viva dell’economia reale.

Peraltro, non può accontentare neppure la tendenza complessiva dell’Eurozona, la cui economia – tra una frenatina nel 2018 e un miglioramento per il 2019 – staziona intorno ad una crescita annuale del 2%. Cioè un punto in meno di quanto è stimato facciano gli Stati Uniti, nonostante un piccolo colpo di freno nel primo trimestre di quest’anno, e di due punti inferiore alla previsione che il Fondo Monetario fa per il pil globale. Tutto questo dovrebbe indurre anche l’Europa a riprogrammare la sua agenda e riformulare i suoi piani. Invece, codardamente si spera che siano gli animal spirit del mercato, da soli, a giocare la partita della nuova fase della globalizzazione, quella dell’industria 4.0 e dell’internet delle cose, mentre assistiamo ad un progressivo avvitamento dei governi e dei parlamenti verso politiche a forte connotazione elettorale, senza che le istituzioni centrali europee siano minimamente in grado, per strumentazione e credibilità, di opporsi.

Il tutto mentre le opinioni pubbliche europee, drogate dall’emotività delle parole d’ordine, sembrano plaudire, contente di partecipare alla tenzone. E quando la politica muscolare vellica i bassi istinti popolari, mala tempora currunt.

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