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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Il dramma della crisi istituzionale

SE LA CRISI DA POLITICA DIVENTA ISTITUZIONALE È LA FINE DELLA REPUBBLICA

25 maggio 2018

Ognuno ha il governo, la politica, le istituzioni che si merita. È inutile abbaiare alla luna per la mediocrità che ci avvolge e ci sommerge, perché se le cose stanno così – e stanno così non da oggi – ciascuno di noi ha la sua quota, più o meno grande, di responsabilità. Anni fa, spazzolando contropelo l’opinione pubblica, ci siamo permessi di coniare una cruda definizione, “dittatura della mediocrità”, per descrivere il progressivo imbarbarimento qualitativo – prima di tutto sul piano culturale e civile – non solo della politica, ma della società intera, nel suo insieme. Sottolineando che nessuno poteva sottrarsi a quel giudizio, comprese quelle minoranze – e noi ci sentiamo tra queste – che avevano sì il merito di aver individuato e denunciato il fenomeno, ma anche il demerito di non essere state capaci di fermarlo. O meglio, di non aver saputo coagulare forze, intellettuali prima ancora che politiche, intorno alla grande scommessa della modernizzazione dell’Italia come antidoto al suo inesorabile declino. Una trasformazione che richiede(va) una rigorosa selezione di classe dirigente – altro che “uno vale uno” e demonizzazione delle élite – la capacità di fare una diagnosi non convenzionali sui mali strutturali del Paese e la conseguente predisposizione di un progetto di lungo termine. Invece, si è lasciato che agli errori – indubitabili e imperdonabili – della nomenclatura che dall’inizio degli anni Novanta ha preso in mano le redini del Paese, a sua volta succedendo alla classe di comando precedente in modo non virtuoso, si replicasse con parole d’ordine vuote, riempite solo di qualunquismo populista.

Gli italiani, ma più ancora il sistema degli interessi e le sue varie rappresentanze, si sono messi nella condizione di dover scegliere tra una continuità che aveva ben pochi meriti e una affermazione di cambiamento che non andava al di là dei no a coloro che si volevano rottamare. Attaccarsi a Renzi e al Pd come barriera per fermare l’onda lunga del “vaffa” nelle sue varie articolazioni? Avevano commesso troppi errori e mostrato troppa tracotanza perché ne fossero capaci. Riesumare Berlusconi? Troppo vecchio e consumato dagli avvenimenti, era inevitabile che cedesse terreno e supremazia al più giovane e meno usurato Salvini, per di più capace di recitare il doppio ruolo in commedia dell’alleato del centro-destra che accetta di condividere la linea politica con i moderati alleati della Merkel nel Ppe e nello stesso tempo dell’uomo di rottura che cerca il consenso nello scontento anti-sistema esattamente come i 5stelle, con cui era evidente che si sarebbe messo insieme. D’altra parte, non c’era nella società – per fortuna – una quantità di “arrabbiati” intenzionati a sposare tesi populiste e sovraniste, o anche solo di curiosi disposti a dare il voto a Di Maio e Salvini per la semplice scommessa del “stiamo a vedere cosa combinano questi qui”, sufficiente a formare una maggioranza autonoma, o pentastellata o di centro-destra a forte trazione leghista.

Se vi ricordate, cari lettori, azzeccammo fin da prima che iniziasse la campagna elettorale, e a maggior ragione a ridosso del voto del 4 marzo, che il risultato di questa offerta politica sarebbe stato la sconfitta dei partiti di governo e la non vittoria di quella di opposizione al sistema. Ma fummo facili profeti, per la semplice ragione che a darci la certezza del pronostico era la mancanza in campo di uno o più soggetti capaci di coniugare la doppia esigenza, quella del rinnovamento e della ragionevolezza. Poteva essere Calenda a dar voce a quella aspettativa, ma ha rinunciato. Poteva essere la Bonino, ma ha preferito rifugiarsi nelle braccia, considerate (erroneamente) sicure del Pd anziché chiamarsi fuori dallo schema tripolare. Potevano essere alcune parti sociali, a cominciare dagli imprenditori, a farsi carico di promuovere un’iniziativa che desse ai riformisti e ai moderati una chance a prescindere dagli ormai fuori gioco Renzi e Berlusconi, ma nessuno ha avuto una tale lungimiranza. E così ora la Confindustria si ritrova all’opposizione di un governo che ancora non c’è, vittima – come ha giustamente sottolineato Dario Di Vico sul Corriere della Sera – di aver lasciato che nella base l’anima brambillesca prendesse il sopravvento e premiasse le suggestioni salviniane del “fai da te” salvo poi spaventarsi di cosa tutto questo può voler dire in termini di esplosione della spesa pubblica e di pericolose fratture con l’Europa, come da “contratto” del governo giallo-verde.

La conseguenza di questi errori è adesso sotto gli occhi di noi tutti. L’Italia la sera dell’ottantaduesimo giorno dal voto non ha ancora un esecutivo, mentre uno scontro furibondo imprigiona le due forze che, rompendo la geometria delle alleanze e delle ostentate solitudini elettorali, hanno sovvertito dettami e prassi costituzionali per arrivare a stipulare un contratto di governo, e con loro un presidente del Consiglio incaricato venuto dal nulla e il Capo dello Stato, strattonato tra chi gli intima di rinunciare (di fatto) alle prerogative che gli articoli 92 e 95 della Costituzione gli attribuiscono e chi gli rinfaccia di non farle valere a sufficienza. Ergo, la crisi da politica si è ormai fatta pericolosamente istituzionale, e rischia di metterci al tappeto con un secondo colpo di spread, dopo quello del 2011 che mise kappao Berlusconi, visto che è schizzato oltre la soglia dei 200 punti. Già, il famoso differenziale di rendimento con i titoli di Stato tedeschi che misura il grado di pericolo in cui versa il paese, è la spia che la speculazione si è messa in moto e ci preannuncia che ne vedremo delle brutte. Forse non ci si è resi conto che stiamo scherzando con il fuoco, e che rischiamo una Brexit al contrario, con l’Europa che ci butta fuori prima ancora che sia l’Italia a voler uscire dall’euro. È l’inconsapevolezza che caratterizza coloro che in queste ore hanno attaccato, anche con toni volgari e meschini, il presidente Mattarella. Del cui operato, in questa vicenda per molti versi priva di precedenti, è legittimo pensare ciò che meglio si crede – noi, per esempio, siamo dell’idea che ci fossero i presupposti per non dare l’incarico al professor Conte – ma senza per questo arrivare al linciaggio morale. In questa fase così buia della storia della Repubblica, conta non solo il rispetto che sempre si deve alla più alta carica dello Stato, ma anche e soprattutto la consapevolezza di come quella del Quirinale sia l’ultima trincea della nostra democrazia, abbattuta la quale il declino si trasforma in tragedia in un batter d’occhio. Una crisi politica possiamo ancora permettercela, e anzi abbiamo detto la settimana scorsa che forse lo shock da essa provocato potrebbe paradossalmente esserci utile per trovare la forza e le energie per ricominciare daccapo. Una crisi istituzionale sarebbe la fine della Repubblica.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.