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L'editoriale di TerzaRepubblica

Altro che Terza Repubblica!

ALTRO CHE TERZA REPUBBLICA SIAMO ANCORA NEL PIENO DI UNA CRISI INFINITA DELLA PRIMA

06 aprile 2018

Se questa è la Terza Repubblica, Dio ce ne scampi e liberi. No, il problema non è il mese che è già passato dalle elezioni e le settimane, o mesi, che ancora dovranno passare prima di scoprire se avremo un governo, e quale. Ma le modalità con cui si sta affrontando il problema della formazione di una maggioranza e dunque il senso da dare a questa legislatura, breve o lunga che sia. Per carità, è vero, il Paese non ha tempo da perdere. Ma sarà bene ricordare che la smania maggioritaria che ci prese nel 1994, e che si è trascinata fino al 2013, per cui era d’obbligo sapere la sera del voto chi avesse vinto e chi perso, e che era giusto che ai primi spettasse tutto e ai secondi niente, è stata insieme la causa e la conseguenza della fase politica (arbitrariamente) chiamata Seconda Repubblica – quella del bipolarismo armato, dell’alternanza obbligatoria e del leaderismo esasperato – che ha prodotto il declino strutturale nel quale tuttora viviamo, cioè la peggiore stagione della nostra storia repubblicana. Dunque, non necessariamente far presto significa far bene. Per cui, lasciamo lavorare in pace il presidente Mattarella, e pazienza se lo svolgimento della trama politica richiede una qualche lentezza. Le consultazioni sono un passaggio fondamentale, e sano, della democrazia, guai a infangarle con il solito fango populista.

D’altra parte, il bipolarismo era finito già nel 2011, quando Berlusconi dovette cedere palazzo Chigi a Monti. Non per un golpe, come qualcuno si attarda a raccontare, forse per lavarsi la coscienza dei tanti errori commessi, ma perché l’Europa – in modo pienamente legittimo, visto che le abbiamo ceduto un pezzo della nostra sovranità e dunque è titolata a preoccuparsi di quanto accade in ciascun paese – ha temuto che la pressione dei mercati finanziari – altrettanto legittima, è il capitalismo ai tempi della globalizzazione – avesse raggiunto un livello di allarme troppo alto per stare a guardare. La legge elettorale maggioritaria, poi, è saltata sia perché la riforma renziana è stata bocciata dalla Corte Costituzionale sia per generale presa d’atto che lo schema della contrapposizione bipolare mal si adattava alla tripolarità (per non dire oltre) introdotta dai crescenti successi dei 5stelle e dalla rottura a sinistra del Pd. Infine, la sconfitta sonora in sede di referendum della semplificazione costituzionale, in chiave populista, voluta da Renzi, ha fatto il resto. Dunque che la Seconda Repubblica fosse morta, e che le elezioni ne avrebbero celebrato la sepoltura, era chiaro ben prima del voto del 4 marzo. Era evidente che non saremmo stati nella condizione di vedere un vincitore – se con tale termine s’intende una forza o una coalizione di forze che conquistano autonomamente la maggioranza in entrambe la aule parlamentari – e ciò, come detto, non necessariamente sarebbe stato un male. Bisognava però esserne consapevoli, e tenerne conto nel momento in cui si parlava agli elettori chiedendo loro il voto. Invece, prima si è imbastardita la legge elettorale correggendo l’impianto proporzionale con un additivo maggioritario. Niente di male, in assoluto, se la correzione serve a compensare il minor tasso di rappresentatività con una più alta probabilità di rendere governabile il Paese. Peccato, però, che il sistema scelto non producesse questa benefica conseguenza, ma solo quella di indurre i partiti a fare coalizioni forzate, o a rompersi (è il caso del Pd) per non far stare insieme coloro che l’eccessiva personalizzazione della politica aveva reso incompatibili. Inoltre il confronto politico e le indicazioni elettorali non hanno minimamente tenuto conto che il dopo voto avrebbe consegnato un puzzle difficilmente componibile, per cui si è dato fondo alle contrapposizioni – una specie di tutti contro tutti – creando così i presupposti per cui qualunque accordo successivo sarebbe stato non solo maledettamente complicato, ma anche assai poco digeribile dagli elettori a cui per mesi si è raccontato non tanto le differenze con gli altri attori in scena – questo è fisiologico – quanto le insuperabili incompatibilità con chiunque.

Ovvio, quindi, che arrivati al dunque, i partiti si siano trovati privi di terreni comuni anche minimi su cui muoversi, tanto da essere persino riluttanti a chiamare con il loro nome le necessarie alleanze da farsi, che ora vengono definite “contratti” da stipulare tra parti che nulla hanno in comune e nulla vogliono (o possono) avere. Il caso della chiusura dei pentastellati verso Forza Italia è paradigmatica di questa condizione, perché se Di Maio – che pure probabilmente ne avrebbe l’intenzione – cedesse alla tentazione di imbarcare pure Berlusconi pur di fare il presidente del Consiglio, i 5stelle si spaccherebbero immediatamente sancendo la divisione già adesso ben visibile tra l’ala governativa e quella movimentista. E questo nonostante che appaia eclatante il cambiamento – positivo – che Di Maio ha fatto fare ai figli del “vaffa”, passati in poco tempo dalla totale indisponibilità a parlare, non si dice allearsi, con chiunque, alla pretesa che tutti ora non pongano pregiudiziali al dialogo.

Il problema è che ciascuno è figlio della propria storia e della propria cultura (o subcultura) politica. E forze che non hanno ragionato per tempo sul fatto che dopo le elezioni avrebbero avuto la necessità di doversi confrontare e alleare, inevitabilmente producono due (cattive) conseguenze. La prima è che oscillano tra chiusure ottuse (il Pd, per esempio, ha scelto l’opposizione prima ancora che ci fosse una maggioranza) e trame opache, alimentando così l’idea che si deve chiamare inciucio ciò che invece è una normale alleanza politica. La seconda che in questo modo non può certo nascere un sistema politico. Ecco perché ciò che abbiamo sotto gli occhi non è affatto la Terza Repubblica, o comunque l’alba di una nuova fase, e tantomeno di una fase nuova, della storia repubblicana. Le stagioni politiche cambiano quando si verifica il combinato disposto della contemporanea trasformazione del sistema politico, degli assetti istituzionali e delle leggi elettorali. Non è successo nel 1994, ed è per questo che fin da subito abbiamo considerato abusivo fregiare con il titolo di Seconda Repubblica la fase che si aprì allora, e altrettanto abbiamo fatto quando si è avuta la tentazione – complice un sistema mediatico maldestro – di definire Terza la fase apertasi nel novembre 2011 o quella risultante dal voto, molto meno rivoluzionario di quanto non si voglia far credere, del 2018. Siamo, fin dagli anni bui di tangentopoli, nel pieno di una crisi infinita della Prima Repubblica, che non ha trovato sbocco se non in tentativi abortiti, perché maldestri sia nel merito che nel metodo, di cambiamenti peraltro solo nominalmente radicali. Lo sbocco non ci sarà neppure ora, in questa legislatura che preannuncia l’ennesima transizione verso il nulla.

Come uscirne? Tre condizioni: governo breve (elezioni a maggio 2019 con le europee) di tutti (ergo nessuno è costretto a fare alleanze con nessuno); ancoraggio saldo all’Europa; convocazione di un’Assemblea Costituente. O c’è la consapevolezza di tutto questo, o non si caverà un ragno dal buco. E il piano obliquo del declino si farà sempre più inclinato.

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