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L'editoriale di TerzaRepubblica

La distanza tra propaganda e realtà

LA DISTANZA SIDERALE TRA REALTÀ E PROMESSE ELETTORALI SPINGERÀ TUTTI VERSO UN GOVERNO DI UNITÀ NAZIONALE

30 marzo 2018

Fateci caso: tanto è tambureggiante il susseguirsi di indiscrezioni circa le frenetiche mosse e contromosse che le forze politiche stanno facendo per trovare un qualche accordo di governo, o per acconciarsi al meglio ad una nuova eventuale campagna elettorale, quanto è assordante il silenzio circa il profilo programmatico che dovrebbero avere i diversi esecutivi su cui si sta almanaccando. Eppure, nel giro di poche ore sono arrivati due segnali che dovrebbero – se ci fosse gente seria e responsabile in giro – riportare tutti con i piedi per terra. Il primo, che pochi hanno notato, riguarda il fatto che una delle più grandi società finanziarie del mondo, l’americana Blackrock, ha suggerito agli investitori di stare lontani dai titoli di stato italiani. È il primo cenno che indica come i mercati siano pronti ad una nuova guerra speculativa. Finora, dal 4 marzo in poi, abbiamo vissuto dentro una calma irreale, e lo spread è rimasto tranquillo, senza mai salire oltre i 140 punti. Che sono molti, sia chiaro, tanto che se fossimo un paese normale ne saremmo alquanto spaventati. Ma considerato quello che abbiamo vissuto, specie nel 2011, in realtà ci appare come una “quota camomilla”. Alla quale, paradossalmente, speriamo di rimanere aggrappati per evitare il peggio. Il secondo segnale viene invece da Bruxelles, che ci ha detto senza troppi convenevoli due cose: dovete fare il DEF (il documento previsionale di economia e finanza) entro la data prestabilita, perché la scadenza del 30 aprile è “obbligatoria” e non facoltativa o, peggio, indicativa; ricordatevi che c’è uno scarto nei conti 2018 rispetto a quanto previsto nella manovra di bilancio presentata dal governo Gentiloni a fine 2017 (mancano all’appello circa 5 miliardi) e dunque andrà fatta una manovra correttiva, così come dovete avere ben chiaro a saldi invariati per il 2019 occorrono 25 miliardi, se non volete che scattino le clausole di salvaguardia (ergo l’aumento dell’Iva). Totale del messaggio Ue: 30 miliardi. Reazione: zero.

Tant’è vero che in queste ore si almanacca sulla possibilità che coloro che propongono mirabolanti tagli di tasse si alleino con chi vuole concedere un reddito a tutti, a prescindere. E non è affatto detto, come molti sostengono, che siano proposte incompatibili solo perché si rivolgono a due platee diverse, territorialmente e socialmente (Nord agiato e Sud povero): siccome sono entrambe prive di copertura finanziaria, basta sommarle, tanto chi ha intenzione di ignorare i vincoli europei che lo faccia per la settantina di miliardi che costerebbe la flat tax proposta da Salvini o per i 30 miliardi abbondanti che si dovrebbero sborsare per il reddito di cittadinanza agognato da Di Maio, o che lo faccia per gli oltre 100 miliardi che le due cose insieme verrebbero a costare, poco cambia. Inoltre, Lega e 5stelle hanno in comune l’intenzione di intervenire su tutte le riforme, buone e meno buone, fatte negli ultimi anni. A cominciare dalla legge Fornero. Non sappiamo se per abolirla o modificarla, e in questo caso come. In entrambi i casi, il saldo per il bilancio dello Stato sarebbe ovviamente molto diverso (tuttavia, se l’idea fosse quella indicata in un’intervista al Messaggero dal professor Alberto Brambilla, consulente di Salvini, ribattezzata “quota 100” nel senso di 64 anni di età e 36 di contributi per la quiescenza, e mantenimento dell’aggancio dell’età della pensione alle aspettative di vita, se ne può ragionevolmente parlare). Ma se dovesse succedere, e facessero tutto ciò che hanno promesso in campagna elettorale, il conto sarebbe di centinaia di miliardi. Irreale. Mentre è tanto reale da essere certo che dovremo fare la manovra da 30 miliardi che ci ha zelantemente ricordato l’Europa, ottenibili o con più tasse (segnatamente l’aumento dell’Iva) o con tagli di spesa (quelli sempre annunciati e mai realizzati) o con il contenimento dell’evasione fiscale (sempre evocato, mai seriamente praticato). E se Roma dovesse non mantenere gli impegni presi solennemente a Bruxelles, l’Italia imboccherebbe una strada che la porterebbe dritta dritta fuori dall’Europa. Cosa che a qualcuno potrebbe anche star bene, visto che in questi anni ci siamo abituati a scaricare sull’Unione Europea tutte le colpe – che pure ne ha, sia chiaro – a cominciare da quelle specificatamente nostre, facendola diventare un grande alibi per evitare di affrontare i nodi strutturali che ci portiamo dietro da oltre un quarto di secolo. Si dice: ma tanto non ce lo lasceranno fare. Stiamo attenti, perché in questa fase Francia e Germania, seppure per ragioni diverse, stanno sul serio ragionando su come resettare l’eurosistema. E da questi conciliaboli potrebbe scaturire uno schema di Europa a due o addirittura a tre velocità, che rischia di consegnarci alla marginalità. Altro che sovranismo.
Insomma, sarebbe ora che partiti e leader (si fa per dire), ma anche i media e quel poco che resta delle articolazioni sociali, cominciassero a parlare di cosa un governo dovrebbe fare nelle circostanze date. Partiamo, cioè, da tre presupposti: che nessuno di coloro che, da soli o in coalizione, si sono presentati ha vinto le elezioni del 4 marzo; che si può dare un governo al Paese solo facendo alleanze non presenti nell’offerta elettorale, o addirittura negate; e che con i veti preventivi non si va nessuna parte. Questo significa ribaltare il paradigma: si fa un governo partendo dalla condivisione di alcune scelte programmatiche, e non da accordi politici cui poi far seguire un programma. E siccome tutte le scelte fondamentali sono economiche o ricadono sul terreno della finanza pubblica, tanto vale iniziare subito, vista la scadenza più che urgente, a ragionare sul DEF pubblicamente. Dicano tutti cosa andrebbe scritto nel documento di programmazione economica, e su quei pronunciamenti si tenti di costruire le necessarie alleanze di governo. Probabilmente si scoprirà che la coperta è cortissima e che i margini di manovra, salvo voler fare la fine della Grecia, non ci sono. E così si finirà col dover prendere atto che la distanza che separa ciò che si può e si deve fare con ciò che si è raccontato agli italiani in vista del voto è talmente siderale da richiedere un concorso solidale di tutte le forze. Si scoprirà, cioè, che nessuna delle quattro combinazioni che sono teoricamente disponibili a far sì che qualcuno formi una maggioranza di governo e qualcun altro l’opposizione, è davvero praticabile: né 5stelle con la Lega (non ci sta Salvini, che non potrebbe più lanciare l’opa su Forza Italia) o 5stelle con il centro-destra (non ci stanno i grillini, che non possono reggere l’intesa con Berlusconi), ma neppure i 5 stelle con il Pd (numeri risicati e per quanto assottigliata la pattuglia renziana non farebbe tornare i conti) o il Pd con il centro-destra (ci starebbero solo i renziani, e non basterebbero). Viceversa, ci sarà da dover prendere seriamente in considerazione, e sarà difficile dire di no a Mattarella se lo proporrà, un governo di unità nazionale, con tutti dentro. Che politicamente avrebbe il vantaggio di evitare alleanze dirette considerate scomode (se mi alleo con tutti è come se non mi alleassi con nessuno), e che sul piano delle opzioni programmatiche, e in particolare della politica economica, consentirebbe di condividere l’onere di scelte difficili e sicuramente lontane dalle promesse affidate alla propaganda elettorale. Prima si farà questo sforzo, meglio sarà per tutti.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.