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L'editoriale di TerzaRepubblica

Voto italiano decisivo per l'Europa

IL VOTO ITALIANO DECISIVO PER L’EUROPA AL BIVIO TRA SPINTE SOVRANISTE E RIFORMA DELL’EUROSISTEMA

 

26 gennaio 2018

Impegnati come siamo a guardare l’ombelico del nostro sistema politico – lo facciamo in continuazione, figurarsi in vista di elezioni nazionali – ci occupiamo poco, o per nulla, di quanto accade intorno a noi, sia sotto il profilo del ciclo economico e finanziario, sia per quanto riguarda la dinamica dei processi geopolitici in corso. Con ciò, da un lato, credendo che l’Italia viva sulla Luna, e dall’altro finendo per aumentare il nostro isolamento, e quindi rendendo paradossalmente vero il falso assunto lunare. Invece, il nostro destino dipende sempre di più dal contesto europeo e mondiale, e pensare di poterne prescindere diventa un delitto verso il Paese, prima ancora che un marchiano errore politico. Anche se noi di TerzaRepubblica abbiamo sempre pensato che l’annuale meeting di Davos assomigli più ad un convivio di lobbysti – di champions league, per carità, ma pur sempre potenti signori orientati al business anche quando sono capi di stato e di governo – piuttosto che ad una Yalta o a una Bretton Woods dove si ridisegna la mappa geografica del pianeta e si regolano i rapporti economici tra le diverse aree del mondo, tuttavia osservare quel palcoscenico può risultare indicativo di chi nelle relazioni internazionali recita ruoli primari, chi secondari e chi fa solo la comparsa. E anche questa edizione della kermesse sulle nevi svizzere ci ha consegnato l’immagine di un’Italia del tutto marginale, e per quel poco che è considerata, è osservata speciale per la preoccupazione che possa rappresentare fastidiosa sabbia negli ingranaggi planetari. Questi ultimi, tra l’altro, alla ricerca, fin qui tanto faticosa quanto poco produttiva, di nuovi equilibri, come lo scontro sul neo-protezionismo americano dimostra.

Vale dunque la pensa di domandarsi se e cosa la comunità internazionale, che vesta i panni dei bankers e dei mercati o quelli dei leader politici e istituzionali, stia pensando delle prossime elezioni italiane e delle sue possibili conseguenze. Quesito alla cui risposta occorre premettere il giudizio che si è venuto formando sull’Italia degli ultimi tempi.

Dal punto di vista economico, la valutazione più diffusa è che attualmente la forza ciclica vada al di là delle note debolezze strutturali dell’azienda Italia. Non è che la ripresa sia diventata autosufficiente, visto che deriva in modo determinante da due fattori esogeni come il tasso d’interesse a zero – che dipende dalla politica monetaria espansiva della Bce – e la forza delle esportazioni, che scaturisce dalla domanda internazionale, ma stupisce come una parte del nostro capitalismo, peraltro molto minoritaria, sia stata così capace di adeguarsi alla quarta rivoluzione industriale in atto nel mondo da spingere il pil ben oltre le più rosee previsioni di due anni e anche di un anno fa (anche se sempre lontano dalla crescita media Ue). Nello stesso tempo, pur in assenza di riforme strutturali davvero significative – l’ultima, piaccia o meno ai pifferai magici impegnati a raccontare favole in campagna elettorale, è stata quella pensionistica della Fornero – l’Europa ha accolto con favore la moderazione della politica di bilancio praticata dal duo Gentiloni-Padoan (con quest’ultimo finalmente libero dalla marcatura asfissiante di Renzi), che ha ridotto il rischio del nostro debito sovrano e di conseguenza ha fortemente rallentato la pressione dei mercati sui nostri titoli pubblici. Tutto questo ha fatto scopa, sul piano più strettamente politico, con la diversa percezione che l’Italia ha offerto di sé in Europa come pure sulla più vasta scena internazionale, dopo la fase turbolenta del governo Renzi, che aveva giocato la partita della rottura – anche con argomenti fondati, ma senza tenere minimamente conto delle nostre tante contraddizioni – senza avere la capacità e la necessaria credibilità per giocare contemporaneamente anche quella della mediazione e della ricerca di alleanze. In questo Gentiloni si è invece rivelato affidabile: piena consapevolezza dei limiti del Paese e dunque niente fughe in avanti. Ma nello stesso tempo, buona capacità di cogliere le occasioni: per esempio, approfittando dell’impasse nella formazione del nuovo governo in Germania, Gentiloni ha tessuto la tela con Macron in modo da far entrare l’Italia nel ricostituendo asse franco-tedesco. Non per esserne la terza gamba – cosa impossibile – ma per rafforzare Parigi rispetto a Berlino, negoziando e conquistando nuovi spazi di manovra per Roma.

D’altra parte, come ha opportunamente fatto notare Sergio Fabbrini, nella feroce battaglia in corso per ridefinire gli assetti continentali, l’Italia può mediare con efficacia tra i paesi dell’Est e del centro Europa a vocazione sovranista – la cui linea prevalente non è l’uscita dall’Europa (hanno troppo bisogno di risorse e protezioni dell’Ovest) bensì lo svuotamento dell’Ue dall’interno, e l’asse franco-tedesco, che esercita la leadership sull’Eurozona. Abbiamo fatto per decenni da cuscinetto tra l’occidente e l’Est comunista, pagando prezzi ma anche acquisendo meriti, a maggior ragione possiamo essere oggi il paese custode dell’interdipendenza europea, temperando gli eccessi di comando della Germania e nello stesso tempo temperando le spinte anti-federali di chi vuole riportare alla riva di partenza la spinta integrativa europea che è arrivata, e rimane, a metà del guado. Anche perché la forte opzione europeista di Macron e la bozza di accordo di coalizione tra i principali partiti tedeschi – che sembra far fare alla Germania la scelta di non costituire più l’ostacolo ad una maggiore integrazione economico-fiscale e politico-istituzionale – sembrano le giuste premesse perché si avvii finalmente il processo di riforma dell’eurosistema.

Ma per fare tutto questo, ed evitare che – pur in un contesto economico ben diverso da quello del 2011 – le elezioni italiane siano prodromiche di una nuova crisi sistemica europea, o comunque la premessa di nuove fragilità continentali che potrebbero rivelarsi letali come le ricadute nelle malattie, occorre che il 4 marzo esca dalle urne un segnale di stabilità e governabilità. Cosa che, per i tanti motivi che in questa sede abbiamo ripetutamente esaminato – osteoporosi dei partiti, dilettantismo delle classi dirigenti, legge elettorale sbagliata, caduta verticale della credibilità della politica e delle istituzioni agli occhi dei cittadini – non sembra a portata di mano. Anzi, pare davvero certo l’esito incerto del voto, nel senso delle sue conseguenze. Si può scongiurare una simile deriva e tutelare le chances che abbiamo davanti? Vorremmo tanto, cari lettori, dirvi che basterebbe evitare il voto alle forze demagoghe e sovraniste per essere a posto. Ma così non è, perché anche le altre forze, quelle a maggiore vocazione di governo, sono, almeno in parte, contagiate dal morbo populista. Tuttavia, è meglio di niente. E poi forse qualche rimedio post voto c’è. Ma ne parliamo prossimamente.

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