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L'editoriale di TerzaRepubblica

Bilancio di fine legislatura

2017, BILANCIO MODESTO. LEGISLATURA, ENNESIMA OCCASIONE MANCATA. PER FORTUNA C’È MATTARELLA

29 dicembre 2017

Con un atto di saggezza istituzionale e di intelligenza politica di Sergio Mattarella si è (finalmente) chiusa la 17ma legislatura repubblicana, il cui bilancio è disastroso sotto il profilo parlamentare, politico e strategico, mentre è buono – ma solo apparentemente – per quanto riguarda la salute economica del Paese, nel confronto tra quella da prognosi riservata di inizio mandato e quella da discreto decorso di convalescenza della fine. Consapevole del rischio di un nulla di fatto insito nelle elezioni del prossimo 4 marzo (finalmente la data è certa, dopo tante forzature fuori luogo e inutili tiramolla), rischio derivante dal combinato disposto micidiale tra il sistema politico tripolare, la legge elettorale ibrida tra proporzionale e maggioritario e la fragilità di partiti, alleanze e leadership (si fa per dire) che sono rimasti in scena, il capo dello Stato, sciogliendo le Camere senza le preventive dimissioni dell’esecutivo, ha fin d’ora creato le condizioni perché il governo Gentiloni possa restare nel pieno delle sue funzioni non solo nel corso della campagna elettorale (che si preannuncia fetida) e nella necessariamente non breve fase delle consultazioni post elettorali, ma anche e soprattutto nei mesi che dovessero precedere un eventuale ritorno alle urne (a giugno o settembre). Scelta sapiente sul piano istituzionale, non c’è dubbio, ma ancor più su quello politico – che pure non gli è proprio, considerato che Mattarella è, oltre che apparire, diverso dal suo predecessore – perché cerca di prevenire il (più che probabile) cortocircuito del sistema, che affronta le elezioni con la stupida incoscienza o la colpevole sottovalutazione del fatto che gli italiani con il loro voto non consegneranno a nessuno le chiavi di palazzo Chigi. Cosa normale e senza conseguenze se ciò avvenisse in un quadro di dialogo rivolto al futuro tra forze che pure, come è logico, segnalano nel rivolgersi agli elettori le loro differenze. Ma che diventa disastrosa nel momento in cui non solo non c’è alcun riconoscimento reciproco, ma anche le stesse coalizioni, a cominciare da quella di centro-destra, sono solo delle intese elettorali destinate a sciogliersi già alla chiusura delle urne. Noi, in questa sede, lo andiamo ripetendo da tempo, anche a costo di sembrare noiosi: il voto renderà necessarie altre alleanze e leadership diverse da quelle che da domani saranno ai nastri di partenza della campagna elettorale. Cioè, in altre parole, gli elettori rispediranno al mittente – come è giusto che sia – i problemi strutturali irrisolti di un sistema politico-istituzionale, la Seconda Repubblica, che dopo due decenni fallimentari non è stato capace in oltre sei anni (dal novembre 2011) non solo di esaurire la transizione verso la Terza Repubblica, ma neppure di costruire le precondizioni minime perché questa nuova stagione si apra. Eppure già il voto del 2013 aveva parlato chiaro, ma né i 300 giorni di larghe intese di Enrico Letta né il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, durato dal gennaio 2014 allo stesso mese del 2015 quando i due ruppero l’intesa sulla candidatura di Giuliano Amato al Quirinale, sono serviti a sciogliere in modo convincente i nodi della transizione irrisolta, e che ora rischia di diventare infinita.

Ecco perché riteniamo che sul piano dei nostri problemi strutturali, quelli che ci portiamo dietro dalla fine della Prima Repubblica e quelli che si sono aggiunti in corso d’opera, la legislatura appena dichiarata finita sia stata l’ennesima occasione perduta. Non solo per il succedersi di tre governi – in fondo siamo pienamente in media – e la scandalosa transumanza di parlamentari – qui, con 546 cambi di casacca, siamo oltre ogni record – e neppure per il tormento della rumorosa ascesa di Matteo Renzi e del suo non meno ingombrante declino, con l’anno buttato via per il referendum costituzionale trasformato in un (mancato) plebiscito. No, l’occasione è stata persa perché, oltre alla perdurante necessità di mettere mano in modo serio a questioni strategiche mai affrontate, c’erano tutte le condizioni, in primis quella di una ripresa economica dopo il decennio nero della recessione e della stagnazione, perché finalmente si voltasse pagina. Ma così, ancora una volta, non è stato. Sia chiaro, la 17ma legislatura non è tutta da buttare. Il governo Gentiloni non è stato a guardare, aiutando in particolare la trasformazione di quella parte (purtroppo minoritaria e troppo limitata) di imprese che hanno svoltato verso l’era digitale, così come nel primo anno di Renzi si sono fatte alcune cose (mercato del lavoro e diritti civili) che vanno messe all’attivo. E il cambio tra l’urticante Matteo e Paolo il freddo, come abbiamo detto più volte, ha consentito di svelenire, per quanto possibile, un clima politico e sociale a dir poco intossicato. Che non è stata, ed è, cosa da poco.

Ma la svolta non solo non c’è stata, né gli italiani l’hanno vissuta, visto che delusione e rancore sono ancora i tratti forti della psicologia collettiva del Paese. Neppure la discreta virata verso la ripresa, che peraltro si è riflessa più nel pil che nelle condizioni di vita dei più, non può essere annoverata tra i meriti dei tre governi che si sono succeduti, per il semplice motivo che essa è quasi esclusivamente figlia della politica monetaria europea, di cui abbiamo beneficiato sia direttamente sia per il fatto che ha generato una accelerata dell’economia continentale dalla quale fortemente ancora dipendiamo. Il fatto che gli inquilini di palazzo Chigi se ne attribuiscano i meriti né ci stupisce né ci indigna – capiamo che il desiderio di mettersi la medaglia al petto sia forte, e siamo indulgenti verso le tentazioni – quello di cui non riusciamo a farci ragione è che costoro non capiscano come non solo gli italiani non ci caschino, ma si ribellino a quella appropriazione indebita, che così diventa un boomerang, elettoralmente parlando. Anzi, il rischio è che ora si veda a occhio nudo la distanza tra l’economia in ripresa, seppure solo congiunturale, e la politica che avviluppata nel suo dilettantismo e trasformismo produce instabilità e incertezza. E che il contrasto tra le due tendenze finisca col bloccare la prima, quella buona.

L’anno che sta per chiudersi propone dunque un consuntivo modesto. Adesso ci accingiamo a vivere, ma sarebbe meglio dire a subire, due mesi di tossica campagna elettorale, preludio di un voto che non toglierà, perché non ce ne sono le condizioni, le castagne dal fuoco alla politica. Per fortuna al Colle c’è un uomo saggio e avveduto… Buon 2018.

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