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L'editoriale di TerzaRepubblica

Le grandi illusioni della politica

LA POLITICA VIVE IN UNA BOLLA DI “GRANDI ILLUSIONI” E GLI ITALIANI LA PUNIRANNO. URGONO ALTERNATIVE

01 settembre 2017

 

La politica si affaccia ai riti settembrini più che mai immersa in una bolla di grandi illusioni. E, di conseguenza, gli italiani tornano dalle ferie così come erano partiti: profondamente intrisi di scetticismo. Hai voglia di sbandierare i decimali di pil in più – la ripresa c’è, ma la crescita strutturale è ben altra cosa – o sfornare qualche dato sulla maggiore occupazione – nascondendo che in due casi su tre si tratta di contratti a termine, e che la disoccupazione è altrettanto aumentata – piuttosto che agitare la carota di nuovi bonus dal chiaro sapore elettorale: il sentimento diffuso è che il Paese non sia governato e, soprattutto, che non ci siano le condizioni perché lo diventi prossimamente. D’altra parte, si tratta di un’idea difficile da confutare. Anche a chi, come noi, non batte affatto un cuore populista e disfattista, gli basta vedere, da un lato, la rinuncia codarda a mettere mano alla legge elettorale, e dall’altro la dinamica del dibattito (si fa per dire) politico solo ed esclusivamente incentrato sugli equilibri di potere (presunti), per soccombere alla irrefrenabile pulsione di alzare le mani in segno di resa.

Persino il giochetto estivo sull’understatement dell’attuale premier come caratteristica gradita dagli italiani e come premessa per individuare il prossimo – che sarebbe tema serio se fosse affrontato seriamente – finisce per rendere scoraggiante la prospettiva dei prossimi mesi. Nei quali con la manovra di bilancio ci giocheremo la residuale credibilità in Europa e la possibilità di consolidare o meno la ripresa economica, e con la campagna elettorale e il voto decideremo se la prossima legislatura sarà finalmente quella buona per traghettarci nella Terza Repubblica o se sarà l’ennesima occasione sprecata a favore della transizione infinita.

Il maledetto vizio di compulsare continuamente i sondaggi e, peggio ancora, di usarli per costruire trame politiche, spinge i partiti a immaginare situazioni che non esistono. Per esempio, si fantastica che il centro-destra unito possa vincere le elezioni e a questo fine si costruiscono a tavolino mediazioni politiche per rendere compatibili la posizione europeista del partito di Berlusconi e Tajani, collocata nell’alveo del partito popolare europeo e nel solco merkeliano della Dc tedesca, con quella eurodisfattista del duo Salvini-Meloni. Trascurando non solo che per vincere ci vogliono i voti – e in un contesto proporzionale questa armata brancaleone non arriverà mai al 51% – che acqua santa e diavolo non sono fatti per stare insieme e che il Cavaliere, per quanti remise en forme faccia, rimane pur sempre un ottantenne senza uno straccio di classe dirigente intorno, ma soprattutto che la cosa è già stata lungamente sperimentata nel passato con esiti disastrosi. Allo stesso modo si immagina che la gauche, spaccata non solo tra il Pd e chi sta alla sua sinistra ma anche e soprattutto dentro i Democratici in un festival dei veti incrociati che si fatica persino a censire, possa in qualche modo tornare a palazzo Chigi, tanto che si discute se ciò sia più probabile con Renzi o qualcun altro, trascurando di percepire che nella società il sentimento diffuso sia quello di voler infliggere una dura punizione a coloro – tutti, Renzi in primis ma nessuno escluso – che hanno abusato del consenso e mortificato le aspettative in modo intollerabile. Forse si fanno illusioni anche i 5stelle, fin qui candidati ad essere il primo partito ma con l’handicap di non aver costruito uno straccio di alleanze, visto che sembrano trascurare l’effetto per nulla positivo sui potenziali elettori che stanno provocando sia i disastrosi risultati degli amministratori locali arrivati alla conquista di alcune città, che le scene un po’ ridicole di sorda competizione interna in un contesto dove tutti contano uno ma due (Grillo e Casaleggio) contano più di tutti gli altri messi assieme.

All’intero sistema politico, dunque, sfugge il fatto che in queste condizioni la cosa più probabile, per non dire certa – tanto più se ci si presenterà al cospetto dei cittadini senza essere riusciti ad evitare la mortificazione di doverli costringere a votare con due mozziconi di leggi elettorali rivenienti da altrettanti bocciature della Corte Costituzionale – è che le elezioni non laureino alcun vincitore. Cosa che non rappresenterebbe un dramma se le forze politiche, consce di questa probabilità, si muovessero fin d’ora a creare le condizioni per cucire, dopo, le alleanze necessarie a dare un governo al Paese. Non si dice, come noi invece abbiamo sempre auspicato e come bisognerebbe fare in un paese serio, che questo “patto di governabilità” sia sottoscritto adesso, o comunque prima del voto, ma che almeno si evitasse di parlare fin d’ora di inciucio come se le larghe intese tra moderati e riformisti fossero una lesione alla democrazia.

L’unico embrione di questa discussione s’intravede in qualche analisi giornalistica circa le qualità della leadership che occorre in una fase politica come questa. Assodato che il decisio-bullismo alla Renzi è stato (giustamente) rottamato da tutti (tranne che dal suo inventore), si discetta se è meglio il piglio di Minniti – che sta facendo complessivamente molto bene il suo mestiere, come dimostra il fatto che una parte non piccola del suo partito non glielo riconosce – e di Calenda o la sorniona bonarietà di Gentiloni. Detta così pare un gioco estivo da spiaggia, e infatti quasi sempre finisce a gossip. In realtà, dietro c’è (ci sarebbe) un’analisi politica molto profonda da fare, riguardo l’eccesso di leaderismo che ha caratterizzato la nostra Seconda Repubblica (e in generale il mondo dopo il passaggio del secolo) e gli effetti dell’ubriacatura maggioritaria che non ha affatto portato maggiore governabilità. Occorre dunque ripartire dalla natura del sistema politico – e di conseguenza istituzionale – che occorre per far uscire l’Italia dal declino imboccato un quarto di secolo fa. C’è il tema dei partiti – che vanno rivalorizzati, ma senza nascondere il fatto che non possono più essere come quelli del dopoguerra – della loro capacità di rappresentanza in una società atomizzata e liquida come la nostra, e del peso che essi debbono avere rispetto alle leadership personali. E c’è il tema delle alleanze tra soggetti politici diversi, che a sua volta pone quello delle figure più adatte alla mediazione, necessariamente inclusive ma non per questo prive del necessario decisionismo.

Nonostante tutto, non vogliamo arrenderci allo scoramento. Buona ripresa.

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