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L'editoriale di TerzaRepubblica

Guerra a sinistra

LA SINISTRA SI DILANIA IN UNA GUERRA TRA VINTI E IL VENTO POPULISTA RISCHIA DI SPAZZARLA VIA

07 luglio 2017

Quello che sta accadendo dentro il Pd, tra il Pd e le altre sinistre, tra le diverse anime alla sinistra del Pd e più in generale nel pulviscolare mondo della gauche all’italiana preso nel suo insieme, è qualcosa di surreale. Intanto perché dalle modalità espressive dei protagonisti e di molti osservatori sembra che si parli dell’intero paese, mentre si tratta di una parte crescentemente minoritaria, sia in termini di rappresentanza sociale che elettorale. E poi perché, da qualunque lato la si guardi e rivolti, non c’è neppure un lembo delle parti in campo che esprima una posizione minimamente potabile.

Partiamo da Renzi e dal Pd, ormai quasi interamente “renzizzato”. Come abbiamo già detto e ridetto, l’ex presidente del Consiglio ha sbagliato e sta sbagliando praticamente tutto. Fu un errore, di metodo e di merito, la forzatura del referendum costituzionale e la personalizzazione estrema di quella battaglia, è stato un errore la modalità con cui ha gestito la sconfitta – ben al di là delle contraddizioni intorno agli impegni di ritiro manifestati – sono un errore le reiterate forzature messe in atto da segretario del partito in questi mesi, da quella per le elezioni anticipate alle varie nei confronti delle componenti interne. Lacerazioni inopportune, spesso inutili, sicuramente dannose per un leader declinante di un partito declinante. Atteggiamenti che derivano dal fatto che Renzi agisce secondo una logica esclusivamente individuale (ormai nemmeno più di gruppo, tant’è che è assai probabile che assisteremo presto ad uno sfaldamento dello stesso “giglio magico”), sorretto da un ego smisurato e animato da una non meno sconfinata voglia di rivincita. Insomma, niente che abbia a che fare con la politica. Per la quale dovremmo accontentarci di sapere che Renzi non è un ex comunista e che non è affetto, anzi, dai tic della sinistra classica, tantomeno di quella radical chic. Buone premesse, è vero, ma insufficienti per cavarci una linea politica e soprattutto un bagaglio programmatico all’altezza delle sfide che l’Italia ha davanti. Tanto più se si tiene conto dei risultati, largamente insufficienti, conseguiti dal suo governo. Anzi, ora si fatica persino a capire chi sia e cosa voglia Matteo Renzi, adesso che ha perso per strada le caratteristiche con cui si era imposto: il rottamatore ha lasciato il posto al killer seriale, il riformatore al pasticcione che strologa sul futuro perché non sa leggere il presente.

Biagio De Giovanni – che, come ha opportunamente ricordato Dino Cofrancesco su Paradoxa, è uno dei pochi cervelli pensanti della sinistra italiana – scrive che dopo la bocciatura della proposta referendaria, il terreno di scontro interno alla sinistra è tornato “nell’alveo di un torrente limaccioso” che trascina tutti i detriti di una storia lunga e tormentata. Vero, anche se il segno di quel passaggio costituzionale non era positivo, tanto che ha finito con l’essere una camicia di forza che ha legato prima di tutto il suo proponente, oltre che porre in stallo l’intera politica italiana. E comunque, sono gli italiani che hanno bocciato a larga maggioranza quella proposta, e a quella scelta ci si deve inchinare. Ma proprio dallo sconfitto ci si dovrebbe attendere una capacità di ricucitura, che invece Renzi si rifiuta pervicacemente di mettere in atto. Sia chiaro, il segretario del Pd ha perfettamente ragione quando accusa i suoi interlocutori interni di essere animati da “anti-renzismo” e di avere in testa solo il vecchio schema ulivista, che non è più praticabile né sotto il profilo elettorale che della coerenza politica. Ed ha ragione perché si rivolge a coloro che, chi appoggiandolo chi dividendo il fronte alternativo, gli hanno spianato la strada alla vittoria nelle primarie. Peggio per loro.

Detto questo, non è rompendo con tutti su tutto che Renzi può pensare di presentare al Paese una proposta credibile. Per il semplice fatto che il contesto neo-proporzionale richiede alleanze, e la forza fin qui mostrata dal fronte populista e sovranista obbliga ad alleanze vaste se non si vuole che si viaggi dritti dritti verso l’Italexit. Tra queste non solo ci può ma ci dovrà essere quella con Forza Italia, indispensabile nel nuovo bipolarismo che ha nel populismo e nella posizione pro o contro l’Europa il punto di frattura, e per evitare l’abbraccio mortale tra Berlusconi e il duo Salvini-Meloni. Ed è qui che casca l’asino degli avversari di Renzi, afflitti dal solito riflesso condizionato dell’anti-berlusconismo. Nello stesso tempo, però, sarebbe miope tessere la tela con Berlusconi – pur indispensabile, lo ripetiamo – con il solo scopo (personale) di tornare a palazzo Chigi. Se c’è una possibilità che un governo di larghe intese si faccia, in chiave anti 5stelle e Lega, essa presuppone che non sia Renzi a guidarlo. Di questo lo smanioso Matteo se ne faccia una ragione, o sarà peggio non solo per lui (amen) ma anche per l’unica chances che abbiamo di evitare un governo Grillo-Salvini o di dover tornare a votare tre mesi dopo le elezioni.

Che faranno gli Orlando e i Franceschini? Emanuele Macaluso li incoraggia a restare e combattere, Peppino Caldarola gli suggerisce di produrre un’altra scissione perché ormai “il popolo residuo del Pd è renzizzato”. In mezzo c’è Eugenio Scalfari, che auspica che Renzi e Pisapia siano presi da “incantamento” e si faccia così la “grande sinistra” sempre sognata. Sogni, appunto. La verità è che ci vorrebbe, invece, un grande partito riformista, moderno, capace di usare parole di verità sulla crisi italiana che viene da lontano, perché capace di analizzare il declino e di studiare un programma liberal-keynesiano per fronteggiarlo e sconfiggerlo. Un partito che alla sua sinistra ne abbia un altro, la cui radicalità sia la certificazione del tasso di riformismo del primo. E che, come il Psi con la Dc e i laici nella Prima Repubblica, sia organicamente alleato di una o più forze moderate. Un partito di cui, francamente, avrebbe senso facessero parte anche i Bersani e i D’Alema, e forse anche i Pisapia (non fosse altro per l’approccio garantista al problema della giustizia), se non fosse che le rotture di natura personale pesano più delle ragioni politiche. 

Il problema, però, è che il progetto riformista manca – sia sotto il profilo politico e programmatico, che culturale – e che Renzi, che sarebbe il giusto leader perché privo delle scorie ideologiche del passato, ha mostrato in modo inequivoco di non essere l’uomo in grado di far fare alla sinistra il salto che, per esempio, gli fece fare Blair o che potrebbe fargli fare Macron se non si rivelerà un fuoco di paglia. Mentre gli altri attori della partita sono più assennati di Renzi, ma di lui a loro manca il piglio decisionista (purtroppo Matteo lo mette al servizio di cause sbagliate) e la testa pienamente sgombra dai vecchi tabù gauchisti.

Insomma, quello del Pd è un gioco a somma negativa. Ed è tale, anzi, se si considera l’intera sinistra, visto che il frazionismo impera anche nelle varie anime che compongono l’area oltre il Pd. Mentre sulla sinistra cala lo spettro di una guerra tra vinti, il rischio, per loro ma anche per noi, è che il vento populista spazzi via tutto.

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