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L'editoriale di TerzaRepubblica

Renzi non è Macron

CERCASI DISPERATAMENTE IL MACRON ITALIANO. E NON È RENZI (ANCHE SE POTEVA ESSERLO)

28 aprile 2017

Salvo sorprese, sempre possibili ma alquanto improbabili, tra poche ore Matteo Renzi tornerà ad essere il segretario del Pd, e tra una settimana Emmanuel Macron sarà il nuovo presidente della Repubblica francese. C’è una relazione, al di là della coincidenza temporale, tra queste due cose? Purtroppo no. Basterebbe mettere a confronto la mestizia dell’unico appuntamento televisivo dei tre candidati al vertice Democrat – risposte imbarazzanti a domande deludenti – con le scene della campagna elettorale transalpina, per avere la plastica rappresentazione non solo di come l’Italia sia ferma e la Francia “en marche”, ma anche del fatto che a questo punto il nostro rischi di diventare l’unico paese europeo in cui prevalgono le forze populiste-sovraniste-protezioniste-cyberfasciste.

Dalle presidenziali francesi, giustamente definite storiche, emergono infatti una serie di indicazioni importanti anche per l’Italia, oltre che per l’Europa intera. La prima è la fine del vecchio bipolarismo continentale – sancita a Parigi, ma iniziata a Roma e Madrid come pure con l’esplosione del bipartitismo inglese – sostituito, come su TerzaRepubblica andiamo sostenendo da tempo, da un nuovo bipolarismo, che divide le forze di governo, siano esse di sinistra, di centro o di destra, da quelle anti-sistema. Poli che si scontrano non solo su temi decisivi come Europa, economia e immigrazione, ma anche sulla concezione stessa della democrazia, per cui a quella rappresentativa si contrappone una non meglio definita (e peggio praticata) democrazia diretta. L’unico paese fuori da questo schema è la Germania – non a caso quello più solido ed economicamente in buona salute – che da anni ha risolto l’involuzione della vecchia alternanza tra socialdemocratici e popolari con l’adozione della “grande coalizione”, lasciando che la competizione sia solo per chi la guida.

Ma la seconda indicazione, fortemente correlata alla prima, è non meno importante: la consacrazione della crisi dei grandi partiti tradizionali, da cui discende quella non meno dirompente delle famiglie politiche europee. Qualcuno, come Massimo Cacciari, ha parlato di “fine della socialdemocrazia europea, come prima forza organizzata di massa della storia moderna”. È un’analisi corretta, sempre con l’eccezione tedesca. Ma anche le altre forze che hanno fatto la storia del Novecento non se la passano molto meglio. E Macron vince anche, se non soprattutto, perché ha rinunciato a stare con un partito, quello socialista, che lui ha giustamente giudicato troppo compromesso nella pratica del potere e troppo consunto nella capacità di elaborazione programmatica, per poter avere idee vincenti e comunque la credibilità per affermarle. Qui scatta una terza considerazione, che Riccardo Perissich ha efficacemente sintetizzato così: “le famigerate élites possono battere i populisti misurandosi con i problemi che ne alimentano il consenso, affrontandoli a viso aperto e non rincorrendoli sul loro terreno”. E già, cara intellighenzia nostrana, cara borghesia illuminata che in Italia hai da tempo ammainato le vele e abdicato alle tue funzioni di guida come un Vittorio Emanuele III qualsiasi, la vicenda Macron dimostra che se la partita politica si gioca lungo il crinale “nazionalismo-europeismo”, “localismo-globalizzazione”, “chiusura-apertura”, “nostalgia del passato-ricerca del futuro”, e dunque in ballo ci sono gli interessi – economici, ma anche culturali – che la modernità rappresenta, le élites hanno il dovere di prestare dei propri figli al Paese e di costringere moderati e riformisti a trovare un programma comune.

Ma se dopo le elezioni olandesi e alla fine del doppio turno francese si potrà dire che la minacciosa marea populista che negli ultimi tempi ha invaso l’Europa e l’intero Occidente, avrà cominciato a regredire, si potrà fare analoga affermazione dopo le elezioni italiane? Il nostro timore – lo sanno coloro che ci seguono da tempo – è che l’Italia faccia eccezione. E la stessa ridicola pantomima stile “specchio, specchio delle mie brame, chi assomiglia di più a Macron nel reame?” che si è scatenata da noi dopo il primo turno francese, la dice lunga sui pericoli che corriamo. Perché le forze anti-sistema, sia in Olanda che in Francia, hanno incrementato la loro forza, ma per fortuna c’è stato chi ha saputo contrastarle e batterle. Da noi, invece, rischia di non essere così. Da un lato Berlusconi non ha posto un argine al duo sovranista Salvini-Meloni e continua a blaterare di centro-destra unito. Il centro montiano si è da tempo liquefatto e resiste solo quello alfaniano, che da solo fatica a presidiare un’area che dovrebbe essere il perno di una “grande alleanza”. Mentre nel centro-sinistra, Renzi finirà per vincere senza convincere la corsa alla segreteria del Pd, che avrebbe dovuto invece lasciare al suo destino (non diverso da quello dei socialisti francesi) per costruire una nuova “casa della modernità”. Come ha fatto – con i tempi giusti – Macron.

Nel 2012 da questa tribuna suggerimmo all’allora figlio della prima Leopolda e candidato premier del Pd – poi battuto da Bersani – di cogliere l’occasione del cambiamento in corsa delle regole di competizione interna per uscire da partito e crearne uno nuovo, basato sul presupposto del superamento dei vecchi ancoraggi di sinistra e destra. Renzi, che pure aveva alcune delle caratteristiche che sarebbero servite per quell’impresa, preferì restare dentro il Pd, illudendosi che conquistarne la leadership avrebbe significato potersi comunque permettere un approccio post-ideologico. Ma un partito nato dall’unione di post comunisti e post democristiani di sinistra non avrebbe mai potuto, né potrà oggi o domani, tollerare di perdere le stigmate dei suoi fondatori, tant’è che è proprio con la sua gestione che il Pd approda nella casa socialista europea. Ora, dopo la batosta del referendum e gli errori marchiani commessi nella gestione della sconfitta – a cominciare dall’idea di ricandidarsi alla segreteria per essere di nuovo indicato premier, come se la stagione del maggioritario non fosse finita – imitare Macron è troppo tardi. Anche perché del francese gli mancano due cose: la statura personale e la straordinaria preparazione – Macron è un uomo colto, un economista sofisticato, vanta solide esperienze professionali – e l’appoggio, a nostro avviso determinante nella corsa all’Eliseo, di un Francois Bayrou, che con il suo MoDem è l’unico alleato della prima ora di “En Marche”. O per meglio dire, il Bayrou di Renzi c’è, e si chiama Francesco Rutelli – che del francese è fraterno amico e con lui condivide la guida del Partito Democratico Europeo – ma oggi è fuori dall’agone politico e soprattutto trova molto più ascolto in Gentiloni che in Renzi. Non a caso Rutelli dice che oggi “non c’è bisogno di un Renzi bis, ma di un Renzi nuovo, inclusivo, aperto, che non abbia un gruppo dirigente troppo ristretto e che non finisca per scegliere persone pescandole da vari ambienti e che poi nella gran parte dei casi lui stesso sconfessa”. Parole sante, ma che con tutta probabilità rimarranno inascoltate.

Ecco, se dopo le primarie, Renzi sarà tentato di scimmiottare l’esperimento liberal-democratico di Macron asserendo di aver liberato il Pd dalle zavorre del passato, deve sapere fin d’ora che, a parte ciò che gli manca per recitare quel ruolo, comunque glielo impediranno. E che il tentativo di portare quel partito altrove non solo segnerà per lui una nuova e forse decisiva sconfitta, ma sarà l’ennesimo pantano in cui farà bloccare la politica italiana, proprio mentre avrebbe bisogno di trovare intorno ad un nuovo centro la forza di costruire la coalizione capace di sconfiggere gli anti-sistema. Non ci si fa Macron da dentro il Pd. Né da dentro Forza Italia. Ma di un Macron abbiamo disperatamente bisogno.

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