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L'editoriale di TerzaRepubblica

Grande coalizione prima del voto

LA “GRANDE COALIZIONE” INELUTTABILE COME IL “COMPROMESSO STORICO”. LEALE DIRLO PRIMA DEL VOTO

21 aprile 2017

Vi ricordate il “compromesso storico”? Era fine febbraio del 1975, tre mesi dopo che nel dicembre ’74 ebbe vita il quarto governo Moro (bicolore Dc-Pri), quando Ugo La Malfa al 32mo congresso del suo partito (allora i congressi si facevano con regolarità) pronunciò il famoso giudizio sulla “ineluttabilità” di un patto con i comunisti, imperniato sul rapporto tra Moro e Berlinguer intermediato dallo stesso leader repubblicano. L’idea, che creò inquietudine anche all’interno dello stesso Pri e valse a La Malfa l’accusa di resa al “nemico”, ebbe un percorso breve, non fosse altro per l’epilogo cruento della vita dello statista democristiano, e il conseguente irrigidimento del Pci, simboleggiato dal Berlinguer che nel settembre 1980 ai cancelli della Fiat arringava gli operai incitandoli alla serrata. Ma anche e soprattutto per l’ostinato rifiuto di Craxi a rendere partecipe il Psi di quella partita. Avesse ragione o torto, La Malfa fu incontestabilmente molto coraggioso a farsi carico di quel gesto politico.

Ci è venuta alla mente quella stagione tormentata osservando l’oggi, e in particolare gli strali di cui sono oggetto tutti coloro che hanno “osato” dire che non solo non menerebbe scandalo un’eventuale intesa tra Pd e Forza Italia allargata a tutti coloro che si sentono alternativi al fronte populista-sovranista, ma anche che questa “grande coalizione”, in quanto necessaria ad evitare che la prossima legislatura finisca per essere un disastro – o per l’impossibilità che si formi una maggioranza o, peggio, che la costituiscano i 5stelle – sarebbe utile cominciare a costruirla fin da subito. Così si sono espressi prima il vicepresidente dei senatori Pd, Alessandro Maran, con una sorta di “meno male che Silvio c’è”, e poi il presidente dei medesimi, Luigi Zanda, secondo il quale i “partiti democratici che credono nella democrazia parlamentare rappresentativa” devono unitariamente contrapporsi a chi blatera di una non ben definita, e comunque malamente praticata, “democrazia diretta”. Non meno espliciti sulla necessità di un’alleanza anti-sovranista sono stati Pietro Ichino, uomo abituato ad andare controcorrente rispetto ai riflessi condizionati della sinistra, e il ministro Carlo Calenda, più che mai vittima degli acidi urici renziani. Anch’essi, come i primi due, meritoriamente fatti venire allo scoperto dal Foglio, giornale che sembra aver finalmente perso l’attitudine a tifare per i dividenti (intelligentemente con Giuliano Ferrara, sguaiatamente con il successore), a favore di posizioni politiche più sofisticate e costruttive. Cari amici del Foglio, benvenuti tra noi: meglio tardi che mai.

Peccato che dal centro-destra, a parte Paolo Romani (“Ecco il manifesto di Fi per dialogare con il Pd”), siano arrivati o il silenzio dei più, o i bei di Renato Brunetta. Quest’ultimo, però, ha il merito di aver reso esplicito un ragionamento che, sottobanco, tendono a fare in molti, sia da una parte che dall’altra. Ci riferiamo al fatto che annunciare l’intenzione di formare una “grosse koalition” prima delle elezioni, e peggio ancora lavorarci fin d’ora subito per realizzarla, sarebbero altrettanti “assist fenomenali ai 5 Stelle” che, dice Brunetta, avrebbero buon gioco a bollarla come “grosse inciucien”, facendo peraltro intendere che anche lui non avrebbe migliore definizione da affibbiare a cotanta aberrazione.
Ma anche tra gli osservatori più attenti e intelligenti questo ragionamento del “parliamone eventualmente dopo” va per la maggiore. L’altra sera, per esempio, lo abbiamo sentito fare in uno dei tanti talk da un uomo navigato come Paolo Mieli: “chi predica questa eventualità perde le elezioni”, ha detto con malcelato cinismo. Può darsi che sia vero – a suo tempo la “ineluttabilità del compromesso storico” non portò elettoralmente bene al Pri di La Malfa – ma in questa posizione c’è un’evidente contraddizione. Perché si può discutere se la prospettiva della “grande coalizione” sia opportuna o meno, sia utile al Paese o meno, ma una cosa è certa: dire per tempo che se sarà necessario che forze diverse ma accomunate dall’adesione ad alcuni principi cardine della democrazia rappresentativa e da alcune scelte di fondo, come la partecipazione dell’Italia all’Europa, non avranno remore a condividere un patto di governo, è un fattore di chiarezza e un’assunzione di responsabilità che può essere definito in tutti i modi meno che “inciucio”. Insomma, prima si dice che le forze politiche tradizionali perdono consenso perché si attardano a logorarsi, tra loro e al loro stesso interno, invece di governare e risolvere i problemi, e poi se qualcuno osa dire che il tempo di unire le forze, lo si tratta da inciucista o, volendogli fare lo sconto, da cretino che non capisce che così si fa il gioco dei grillini. Qui tocca dirci d’accordo – succede raramente, ma ciò aumenta il valore quando accade – con Gustavo Zagrebelsky, che in un’intervista al Fatto Quotidiano (e dove, sennò?) incita i pentastellati a fare subito alleanze per sconfiggere chi vuole farle contro di loro. Giusto professore: se con Grillo sono disposti ad intendersi una fetta della sinistra (Bersani lo ha detto apertis verbis) e la destra sovranista (che tace ma non smentisce), è bene che agli italiani si dica preventivamente se e con chi i 5 Stelle sono disposti ad allearsi.

Dunque, le forze riformiste e moderate non si facciano né intimorire né irretire nel subdolo gioco del “marciamo separati perché così conviene, che poi l’accordo lo troviamo”. Al contrario, abbiano il coraggio sia di rimarcare con nettezza le differenze che le separano da quelle populiste-sovraniste-protezioniste, sia di prendere atto che, quale sia la legge elettorale (ma forse è il caso di usare il plurale) con cui si andrà a votare, oggi non è più in campo il vecchio bipolarismo e che ciò che rimane del vecchio centro-sinistra e del non meno vecchio centro-destra non hanno in entrambi i casi alcuna possibilità concreta di uscire dalle urne avendo conquistato autonomamente la maggioranza dei seggi parlamentari. Chi oggi racconta che il Pd può guardare al 40% dei voti e prendersi così il premio di maggioranza – che non a caso testardamente Renzi vuole mantenere a favore della lista anziché della coalizione – e chi continua parlare di centro-destra come se le posizioni assunte dal duo Salvini-Meloni fossero compatibili con chi sta nei Popolari europei e sogna la “remuntada” berlusconiana, è non solo matto, ma pericoloso. Giustamente Claudio Martelli evoca Sigmund Freud e la definizione, “coazione a ripetere”, che egli ebbe a dare a quella nevrosi che induce gli individui a perseverare nell’errore anziché ricordare e riconoscere il trauma subito per superarlo. L’ex leader socialista si riferisce a Renzi il superbo, al trauma del referendum e al suo pervicace rifiuto di imparare la lezione, per cui coltiva rancore e voglia di vendetta anziché tessere la tela delle alleanze. Ma lo stesso discorso vale i tanti centrodestrorsi che, come quei giapponesi che non si accorsero della fine della guerra, credono ancora che “appena Berlusconi torna in campo, glielo facciamo vedere noi…”.

Noi, invece, crediamo nella “ineluttabilità della grande coalizione” fin da quando erano chiari i disastri che avrebbe provocato il bipolarismo all’italiana della Seconda Repubblica, e non abbiamo remora alcuna a ripeterlo. Nel frattempo facciamo un voto perché in Francia vinca il riformista moderato Macron, primo passo indispensabile per salvare la Francia stessa, l’Europa e in buona misura anche la nostra povera Italia.

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