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L'editoriale di TerzaRepubblica

Le primarie PD sono un disastro per il Paese

LE PRIMARIE STRUMENTO DELLA RIVINCITA DI RENZI? SARÀ UN DISASTRO PER LUI, IL PD E IL PAESE

10 marzo 2017

Il Pd, e Matteo Renzi in particolare, non hanno ancora capito cosa gli sta per succedere. Invece che tendere l’orecchio e ascoltare ciò che il Paese rimprovera loro, il partito s’infila in una campagna elettorale interna, di cui non si sentiva certo la mancanza, che porterà a primarie a dir poco sanguinose, oltre che inevitabilmente costellate delle solite irregolarità (vista la demenziale scelta di lasciare aperta la partecipazione a chiunque al prezzo di due miseri euro, contro il costo della tessera d’iscrizione dieci volte più alto), mentre l’ex segretario mostra il volto, tracotante e arrogante, di chi si sente in credito. “Sono tre mesi che giro col capo cosparso di cenere. Ora basta. E se qualcuno pensasse che a fronte del momentaneo indebolimento io abbia perso energia e grinta, commetterebbe un gravissimo errore”: così Renzi ha deciso di presentarsi sul proscenio del Lingotto per aprire la corsa alla riconquista della leadership. Un tono muscolare che probabilmente non gli giova per il buon esito delle primarie, ma che di sicuro non gli serve a riconquistare il cuore e il consenso di quei cittadini che pure avevano investito fiducia e attese su di lui e che già nel referendum gli avevano ritirato il credito. Eppure, dopo non aver ascoltato altra analisi critica, dal 4 dicembre in poi, che la stucchevole storia del “non mi sono fatto capire dagli italiani”, ora se ne esce con questo “adesso basta con l’autocritica” che gli farà pagare – e con lui al partito – un prezzo ancora più alto di quello già salatissimo pagato fin qui.

Sia chiaro, non è solo un problema di umori e di psicologia. Il tema è politico. Fare la convention laddove s’era svolta la kermesse veltroniana che celebrava l’epopea del maggioritario, insistendo su primarie finalizzate a scegliere il candidato premier, che deve essere allo stesso tempo anche segretario del partito nonostante che per quest’ultima scelta lo strumento appropriato sarebbe un congresso riservato agli iscritti, la dice lunga sull’orientamento di Renzi, e del Pd che lo ha assecondato (compresi i concorrenti Orlando ed Emiliano). Signori, ma non vi siete accorti che nel frattempo la stagione del maggioritario si è chiusa dopo due decenni di fallimentare Seconda Repubblica? E non vi rendete conto che insistere con strumenti e riti che si giustificano solo in quel contesto, significa non aver capito nulla di quanto è successo dalla caduta del governo Berlusconi, nel 2011, in poi, e soprattutto non aver compreso il significato della vittoria del No al referendum e della bocciatura, per mano della Corte Costituzionale, della forzatura rappresentata dall’Italicum? Nessuno oggi impedisce al Parlamento di votare una legge elettorale di stampo maggioritario. Se non succede, e non succederà, è perché il bipolarismo (malato) si è trasformato in un tripolarismo sgangherato, in cui il soggetto più forte è quello che ha come ragione sociale l’avversione alla democrazia rappresentativa. Insomma, è finito il tempo dei premi di maggioranza, del chi vince prende tutto, anche perché se accadesse ad averne vantaggio sarebbero i grillini, o se si vuole il fronte dei populisti, sovranisti e giustizialisti. Dunque, il Pd, come partito (per ora, ma ancora per poco) più forte, oggi deve prepararsi alla stagione di un nuovo bipolarismo, quello che divide chi sta dalla parte della democrazia rappresentativa e dell’Europa da chi sventola le bandiere del peronismo-lepenismo e del nazionalismo e che il garantismo non sa neppure dove stia di casa. E per fare questo, occorre rimuovere alcuni riflessi condizionati. Il primo è la fregola del leaderismo. Gli italiani hanno capito (finalmente) che una fase della storia così complessa come quella che stiamo vivendo non si affronta con l’uomo solo al comando, ma con una squadra molto articolata, dove esperienza politica e competenze tecniche si fondono, che poi esprime un primus inter pares in cui le capacità inclusive superano e temperano quelle della primazia solitaria. È il concetto di leadership che va indagato e riscritto su basi diverse da quelle degli ultimi anni. Non è un caso che a un presidente del Consiglio (chissà se i nostri lettori notano che non usiamo mai la parola premier) incline al low profile e privo di storytelling da recitare, come Paolo Gentiloni, venga riservato un consenso che di sicuro va oltre i meriti, finora circoscritti a non molto di più del fatto di interpretare quel ruolo proprio con discrezione e mitezza.

Il secondo riflesso condizionato da rimuovere è quello di continuare a pensare che si possa e si debba regolare la partita dell’assegnazione del compito di guidare il paese solo ed esclusivamente nelle urne. Nella prossima legislatura serviranno le alleanze parlamentari. Che sono inevitabilmente inciuci se si continua a denigrarle e demonizzarle, ma che invece possono essere soluzioni virtuose se ci si sforza di capire che le distinzioni in sede elettorale, per esempio quelle tra moderati e riformisti, non necessariamente comportano le barricate in parlamento. Nella Prima Repubblica le distinzioni tra democristiani, laici e socialisti erano forti, ma questo non impediva loro di formare maggioranze omogenee (le crisi di governo ripetute erano sì una patologia, ma non mortificavano la continuità delle alleanze, prima quelle centriste e poi di centro-sinistra). Anche perché c’era una distinzione più forte, quella rispetto ai comunisti, che tendeva una linea di demarcazione (varcata in nome di interessi comuni supremi e grazie alla “ragionevolezza” del Pci). Ora questa distinzione è nei confronti del fronte populista e anti-europeo, e deve però presumere un lavoro preventivo delle altre forze di ridefinizione delle linee di demarcazione, su base politica, programmatica e culturale.

Altro che rivincita del leader ferito. Qui non c’è in ballo la sorte personale di Renzi, o di chicchessia, bensì le sorti di un Paese appeso ad un filo, da anni in purgatorio e ora ad un passo dal precipizio dell’inferno. Può darsi – speriamo – che un po’ di castagne dal fuoco ce le tolgano gli olandesi e i francesi sconfiggendo nelle urne i rispettivi fronti nazionalisti e illiberali. Può darsi che una mano ce la dia la signora Raggi, che persistendo nel mostrare non solo ai romani la clamorosa pochezza sua e dei dilettanti allo sbaraglio che obbediscono ad un saltimbanco, finisca per dirottare altrove la speranza di rinnovamento della politica che i grillini predicano razzolando pessimamente. Ma senza una ripartenza su basi diverse di chi si candida a rappresentare gli italiani moderati e quelli riformisti – tutti insieme, sulla carta la netta maggioranza, ma sono i disillusi e gli arrabbiati a fare la differenza – non ci saranno aiuti che tengano. Renzi è ancora una risorsa, ma se non capisce tutto questo e s’intestardisce nel suo cieco e irrefrenabile desiderio di revanche, allora saranno guai per lui e per noi.

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