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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il bivio oltre il Pd

SIAMO AD UN BIVIO, SCHIACCIATI TRA UN PARTITO CHE NON C’È PIÙ E UNO CHE NON C’È ANCORA

17 febbraio 2017

Chiuso definitivamente con il referendum il più che ventennale periodo maggioritario e bipolare, impropriamente chiamato Seconda Repubblica, della storia politica post bellica, l’Italia è entrata in una fase di transizione, una zona grigia in cui quel che resta del sistema politico è vittima tanto del partito che “non c’è più” quanto di quello che “non c’è ancora”. Il primo, naturalmente, è il Pd, che vittima della “vocazione maggioritaria” che esso stesso ha largamente contribuito a distruggere, ora è in piena implosione. La quale ci sarà, sia chiaro, anche se la “scissione” voluta da D’Alema e Renzi in egual misura, nei comportamenti se non nelle intenzioni, alla fine non dovesse consumarsi. Il secondo è il partito dei moderati – da sempre la parte più consistente dell’elettorato italiano, oggi in gran parte confluito nel vasto fronte dell’astensione – che dopo l’eclissi berlusconiana del 2011, la fugace quanto letale comparsa sulla scena della meteora Monti e il generoso ma infruttuoso tentativo di Passera, è rimasto politicamente orfano senza che nessuno, almeno per ora, tenti di rappresentarlo, salvo il ritorno in campo del quasi ottantunenne Cavaliere. Il tutto mentre appare chiaro anche ciechi che il centro-destra d’antan non c’è più, né potrà più esserci, non fosse altro per l’esplicito chiamarsene fuori da parte del Salvini-Meloni.

Ma sarebbe un tragico errore, che ci pare si stia commettendo, leggere le convulsioni del Pd e sottovalutare l’incognita moderati come se fossimo ancora dentro la Seconda Repubblica. Viceversa, esaminare entrambi i fenomeni alla luce del fallimento del sistema maggioritario e il ritorno, seppure in modo a dir poco confuso, ad una modalità di rappresentanza elettorale di tipo proporzionale – perché è quello che accade dopo la bocciatura dell’Italicum e la vittoria del No nel referendum – consente non solo di rendere nitido ciò che è opaco, ma di cominciare a porsi il problema del quadro politico che verosimilmente uscirà dalle prossime elezioni (anticipate o, come si spera, a scadenza naturale che siano). Infatti, va detto con brutale nettezza che la prossima legislatura o sarà di svolta e di rilancio, o sarà, drammaticamente, di crollo verticale del Paese, perché gli spazi di trascinamento si sono ormai esauriti e tutti i nodi – dal sistema economico, schizofrenicamente divaricato non più solo tra Nord e Sud, ma tra ciò che è internazionalizzato e ciò che non lo è, alle compatibilità di finanza pubblica prossime a saltare in modo fragoroso non appena la politica monetaria della Bce cambierà di segno – stanno venendo impietosamente al pettine.

Dunque, la domanda che ci si deve porre, anche alla luce del fatto che ancora non è stata determinata la legge elettorale, omogenea tra Camera e Senato, con cui andremo a votare, è la seguente: quale governo darà al Paese la prossima, decisiva, legislatura? E la risposta non può che partire dalla considerazione che, vista la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, si voterà con un sistema di tipo proporzionale. Il che cambia ogni prospettiva politica, seppellendo definitivamente, giocoforza, i due schieramenti del vecchio bipolarismo. Con tutta evidenza, sono tre i risultati possibili che possono uscire dalle urne. Il primo: la vittoria del fronte populista, nella duplice possibilità che 5stelle, Lega e Fratelli d’Italia aggregati prima del voto superino il tetto del 40% e si prendano il banco grazie al premio di maggioranza o che, in mancanza di questi presupposti, i grillini siano il partito di maggioranza relativa cui il capo dello Stato inevitabilmente dovrà dare il mandato di formare un governo e che in quel momento cerchino, trovandola, l’alleanza con Salvini e Meloni. Il secondo: lo scenario spagnolo, cioè impossibilità di trovare una maggioranza e formare un governo. Il terzo: la creazione di una coalizione di “larghe intese”, che poi sarebbe il vecchio centro-sinistra della Prima Repubblica, possibile se il Pd o Forza Italia saranno il primo partito o se pur essendolo i pentastellati, essi non riuscissero ad andare al di là del mandato esplorativo iniziale. Tutte le altre ipotesi non esistono, salvo che nella fantasia di Renzi e di qualcun altro affetto da sindrome di scollamento dalla realtà.

Inutile dire che noi guardiamo ai primi due scenari come a vere e proprie disgrazie, che farebbero piombare il Paese nel caos della totale ingovernabilità (avete presente Roma, intesa come Campidoglio? ecco…). Mentre l’unico governo che potrebbe evitare la catastrofe è quello che veda insieme i democratici con chi rappresenta i moderati. E qui torniamo al punto di partenza del nostro ragionamento. Di quale Pd stiamo parlando? E chi c’è, se c’è, a rappresentare l’area moderata oltre Forza Italia? Quesiti che per ora – ed è motivo di grande inquietudine – non hanno risposta. Per esempio, in questo quadro l’eventuale scissione del Pd potrebbe essere un bene se si consumasse in un contesto di consapevolezza che si marcerà separati per colpire uniti. Ma non per fare il cartello delle sinistre, che in questa fase storica e nel nuovo contesto internazionale che si sta profilando, oltre ad essere una stupidaggine non avrebbe neppure i numeri, bensì per poi allearsi comunque con i moderati. Mentre sarebbe un autolesionistico favore ai grillini se creasse due sinistre (ammesso e non concesso che il Pd rimasto in mano a Renzi in modo incontrastato possa essere definito una forza della gauche) destinate a stare su fronti diversi dopo il voto. Ma è pensabile che uno che si è illuso, nell’ordine, di vincere il referendum, di poter contare come tutto suo il fronte del Sì, di trarre vantaggio dal voto al più presto, anche a costo di dover sfiduciare lui Gentiloni, e di poterci andare con più vantaggio se nel frattempo gli riuscisse di annientare i suoi avversari interni, possa ora ragionare e capire gli scenari che gli si (e ci si) prospettano dinnanzi? Renzi, se prima quando era al governo aveva sbagliato molto, ora dopo la batosta referendaria, ha veramente sbagliato, e sta sbagliando, tutto. Non che la minoranza abbia, per storia e per comportamento presente, maggior sale in zucca, ma Renzi ha a suo carico l’aggravante di avere avuto in mano un consenso enorme, che gli altri si sono sognati, e di averlo dilapidato per mancanza (totale) di equilibrio e lungimiranza. “Decisionista esitante”, l’ha definito con sagacia il nostro amico Dino Cofrancesco – paragonandolo a Bettino Craxi, che però era infinitamente meglio – che pure ha votato Sì al referendum.

Quanto al fronte centrista e moderato, vale in modo speculare quanto detto per il Pd. Il fronte sovranista e populista si è già scisso – ed è un bene, alla fine la linea ottusa di Salvini e Meloni su Europa ed euro è una discriminante da cui non si può prescindere – ma è la capacità di Berlusconi di raccogliere l’intero fronte esente dai radicalismi che è in discussione. Il Cavaliere indubbiamente una sua capacità attrattiva ancora la possiede, ma difficilmente potrà avvicinarsi al 20% e mai lo potrà superare. Questo significa che manca – ecco il “partito che non c’è” – una forza centrale, intermedia tra Pd e Forza Italia, che possa ambire a quel 10% che Monti seppe raccogliere con Scelta Civica. Per dirla con il linguaggio e la storia della Prima Repubblica, un po’ quello che era il Pri tra democristiani e socialisti. Sono diversi coloro che ci stanno pensando, ma pochissimi (ad essere generosi) quelli che non temono di fare un buco nell’acqua. Invece bisogna lavorarci. Con chi? Calenda? Parisi? Passera? Alfano e Casini? Vedremo. Ma una cosa è sicura: basta leaderismi, di unti dal signore soli al comando abbiamo già avuto esperienza, e non vorremmo ripetere né quelle remote né quella più prossima. Preferiamo pensare che sia la società civile, nelle sue espressioni migliori, che faccia partire un’iniziativa.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.