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L'editoriale di TerzaRepubblica

Gentiloni e le banche

IL “CASO BANCHE” PASSAGGIO DECISIVO PER GENTILONI (SE VUOLE DURARE)

13 gennaio 2017

Anno nuovo, (cattive) abitudini vecchie. Quando la politica italiana fatica a risolvere i problemi, vuoi per mancanza di soluzioni vuoi per incapacità di metterle in atto quando ci sono, puntualmente si rifugia nell’ammuina mediatica intorno al tema del “perché” ma soprattutto del “per colpa di chi” i problemi medesimi si sono creati. Ora, se analizzare la genesi di una questione aiuta a trovare le risposte migliori e a concretizzarle, ben venga. Ma se, invece, serve solo a sollevare polveroni dentro i quali nascondere l’indecisionismo e la felloneria, allora sono guai. Perché i problemi marciscono, e i loro effetti negativi si moltiplicano. L’ultimo esempio di questa tendenza che la Seconda Repubblica ha consacrato a “stile di governo” da oltre due decenni, è la crisi delle banche. E in particolare la deriva, che non esitiamo a definire populista e giustizialista, per cui il nocciolo della questione starebbe tutto nel rivelare i nomi degli indebitati che non restituiscono i soldi e che, con ciò, hanno zavorrato gli istituti di credito di “sofferenze”. Già, la mitica “trasparenza”, in nome della quale la gogna diventa “giusta”. Quando le cose vanno male, è più facile gettare dei nomi in pasto ai media perché li trasformino in colpevoli, piuttosto che risolvere i problemi.

Spiace che in questo caso a sollevare la questione sia stata una persona che stimiamo, dal candido pedigree liberale come il presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Ma al di là della tattica al servizio degli interessi che – doverosamente – per ragioni istituzionali egli difende, francamente fatichiamo a capire il senso di questa idea cui subito politici di ogni fronte si sono accodati. Intanto perché i nomi dei grandi debitori – Sorgenia per capirci – sono stranoti, mentre le banche sono piene di non performing loans (npl) di decine di migliaia di Brambilla qualunque i cui nomi possono al massimo essere riconosciuti dai vicini di casa. Poi perché ogni situazione fa caso a sé, ed è arduo – tanto più per tribunali del popolo – distinguere tra normali dinamiche di mercato (errori imprenditoriali e erronee valutazioni bancarie) e uso doloso del credito. Ma al di là della loro inutilità ai fini conclamati della trasparenza, e senza neppure giudicarle per quelle che sono – barbarie giustizialista da processo in piazza – le “liste di proscrizione” sono oggettivamente uno strumento di “distrazione di massa” da quella che è la vera essenza del problema bancario in Italia. Che chiama in causa prima di tutto gli ultimi governi. I quali, dapprima non sono stati in grado di “leggere” le difficoltà del nostro sistema creditizio e prendere provvedimenti, come gli altri paesi europei hanno preso, salvo poi pretendere di metterli in atto dopo che sono state varate – con il nostro voto favorevole – norme restrittive. E poi, da un lato, non hanno saputo mettere in discussione nelle sedi opportune le pratiche di vigilanza sulle banche a dir poco cervellotiche praticate dalle autorità europee (Bce, Eba, ecc.), sollevando problemi politici che potevano e dovevano essere evidenziati, e dall’altro hanno maldestramente affrontato tematiche importanti come la riforma delle banche popolari (sospesa per mano del Consiglio di Stato e in attesa di una decisione della Corte Costituzionale) e la gestione sistemica delle sofferenze bancarie (con le GACS-Garanzia sulla Cartolarizzazione delle Sofferenze la montagna ha partorito il topolino). Infine, se a questa insipienza si aggiungono le scelte sbagliate del governo Renzi, sia in termini di difesa di interessi di bottega (caso Etruria) sia in termini di disegni di potere (caso Mps, con la giubilazione dei vertici della banca su istigazione di una banca d’affari americana, JP Morgan), il disastro è completo. A fronte del quale, anche i casi di uso predatorio del credito – a cui comunque deve (o dovrebbe) provvedere la giustizia penale – passano in secondo piano.

Per questo il nodo del risanamento e della modernizzazione del nostro sistema bancario – cosa che era e resta decisivo ai fini del consolidamento di una ripresa economica tuttora fragile – non può essere sciolto cercando i colpevoli, veri o presunti, ma studiando il problema e proponendo soluzioni. Con le commissioni d’inchiesta, invece, non si va da nessuna parte. E di questo deve essere e mostrarsi consapevole Gentiloni, se vuole dare un senso al suo governo e consentirgli – come noi crediamo che voglia, al pari del Capo dello Stato – di durare fino alla fine della legislatura, rendendo inutili le manovre di chi intende imporre a tutti i costi, per interessi personali e di bottega, le elezioni anticipate. Tanto più ora, che è stato sgombrato il campo (quello del governo, non del Pd, che resta ad alto rischio di spaccare sul tema) dal pericolo del referendum sull’articolo 18 voluto dalla Cgil. Solo che c’è bisogno di segnali immediati, che vadano ben al di là del decreto – comunque positivo – con cui sono stati stanziati 20 miliardi per le necessità di capitale del Montepaschi ed eventualmente di altri istituti.

Il fatto è che, mentre ministri come Minniti (bene la minor tolleranza sui temi della sicurezza) e Calenda (ottimo il piglio su Alitalia e tutta da valorizzare la sua proposta “keynesiana” di politica economica) stanno dimostrando di saper imprimere alle azioni di governo, per quel che a loro compete, una forte carica di decisionalità e progettualità, dal lato del dicastero più importante, quello dell’Economia, continuano a giungere, come già con Renzi, flebili e contraddittori messaggi. E questo è un problema che il primo ministro – cui auguriamo un pronto ristabilimento – dovrà affrontare quanto prima. Per almeno tre motivi. Primo: è al Tesoro che passano i fili della politica economica, e saperli tirare per il verso giusto – come non è accaduto con Letta e Renzi – è decisivo per il governo stesso ma soprattutto per il Paese. Secondo: se è vero che inizialmente ha dovuto pagare un prezzo alto alla continuità con Renzi (fino a far ribattezzare il suo esecutivo come Renzi-bis), ora Gentiloni ha tutto l’interesse a marcare la discontinuità. E dove se non nel ministero chiave? Terzo: in questa fase storica, il tema politico di fondo è arginare la deriva populista. Tema che Renzi ha interpretato giocando al gatto con il topo con i grillini, un po’ cercando sputtanarli e un po’ imitandoli. Cosa che si è rivelata sbagliata – tanto che oggi il topo rischia di mangiarsi il gatto – nonostante i madornali e ripetuti errori dei seguaci del comico, l’ultimo dei quali, la vicenda delle alleanze europee dei 5stelle, è stato addirittura una ridicola pantomima. Per il semplice motivo che i 5stelle non si battono mettendo in rilievo i loro difetti – se così fosse, sarebbero già morti – ma correggendo i propri, quelli delle forze di governo e garantiste. Gentiloni, torna presto e batti un colpo.

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