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L'editoriale di TerzaRepubblica

Renzi nemico del Renzi bis

SARÀ PURE UN “RENZI BIS” MA IL VERO NEMICO DEL GOVERNO GENTILONI È PROPRIO MATTEO RENZI

16 dicembre 2016

Paradossale. Il governo Gentiloni nasce ed è destinato a vivere incarnando una clamorosa contraddizione: appare, e per molti versi è, un Renzi bis, ma nello stesso tempo ha nell’ex presidente del Consiglio il suo peggior nemico. Il quale, non avendo per nulla metabolizzato la sconfitta, né per quanto lo riguarda personalmente né per il più generale significato di spartiacque tra un prima e un dopo che il referendum è destinato ad avere nella politica italiana, si muove in perfetta continuità con il profilo caratteriale che ha mostrato e le modalità politiche che ha adottato nei suoi mille giorni a palazzo Chigi. Ricordare la sequenza degli eventi che disegnano la reazione di Renzi alla consultazione referendaria è utile per capire cosa l’ex primo ministro farà nell’immediato, a cominciare tra poche ore all’assemblea del Pd, che deve decidere se instradare o meno il partito verso un congresso ravvicinato. Uno: la conferenza stampa di mezzanotte nella domenica elettorale, in cui annunciava le sue dimissioni prima ancora di aver conferito con il Capo dello Stato. Due: il tentativo, durato 48 ore e stoppato da Mattarella, di spingere il Paese ad elezioni immediate, usando l’Italicum non ancora giudicato dalla Corte Costituzionale. Tre: le consultazioni parallele a quelle del Quirinale, per spingere la candidatura di Gentiloni, la figura da lui ritenuta meno ingombrante per se stesso e che era nella sua testa ormai da settimane. Naturalmente il presidente incaricato lo sapeva e non ha potuto che tenerne conto in sede di formazione del governo. Quattro: la richiesta che il nuovo esecutivo fosse il più possibile fotocopia del suo e l’insistenza perché Luca Lotti diventasse ministro e mantenesse la delega all’editoria, e perché Maria Elena Boschi fosse sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, e pure senza che altri avessero pari grado (contrariamente a quanto si racconta, è stato lui e non lei, che invece era consapevole della necessità di uno stop, a pretendere la nomina). Cinque: l’indicazione, fatta trapelare dai suoi, dell’11 giugno come data possibile per il voto anticipato (cosa che ha fatto nuovamente imbestialire il Quirinale). Tutto questo per ribadire che, nonostante la vittoria del No, è ancora lui a dare le carte. E che, partendo dal presupposto – infondato, ma questa è una valutazione che proprio non gli riesce di fare – di poter contare alle politiche su tutti i 13 milioni di Sì, la rivincita gli sorriderà.

Fin qui Renzi, di cui scopriremo fra poco le intenzioni anche per quanto riguarda il partito. Ma ora a palazzo Chigi c’è Gentiloni. Tutti dicono: è troppo debole, politicamente e caratterialmente, per opporsi ai disegni di chi gli ha consegnato le chiavi. Noi, che lo conosciamo bene da decenni, tendiamo non solo a sperare ma anche a credere che il neo primo ministro consideri saldato il debito a Renzi proprio con le modalità con cui è stato formato il governo, visto che il prezzo pagato con la “fotocopia” è assai alto. Inoltre, Gentiloni può contare su Mattarella, che a sua volta ha compreso come il vero settennato sia iniziato adesso, ed è ovvio che desideri lasciare il segno, seppur con il suo stile dimesso. Ed entrambi, Gentiloni e Mattarella, hanno tutto l’interesse che il governo duri, possibilmente anche fino al termine naturale della legislatura, e sono pienamente consapevoli che il pericolo maggiore è rappresentato dal fuoco amico renziano. Naturalmente, tutto dipenderà da come il governo saprà giocarsi le carte nelle partite aperte e in quelle che inevitabilmente, specie sul terreno economico, si apriranno via via. Il primo banco di prova riguarda due questioni delicatissime. Una attiene al decreto necessario per fornire alle banche quelle garanzie anti-crack che Renzi avrebbe dovuto produrre molti mesi fa, quando sia la vicenda Montepaschi sia quella delle due banche venete erano gestibili con molti meno affanni. L’impressione è che il Tesoro stia finalmente lavorando senza i pesanti condizionamenti che finora gli erano arrivati da palazzo Chigi, ma certo è ancora presto per giudicare. Il secondo problema che Gentiloni si trova ad affrontare è quello della scalata della francese Vivendi a Mediaset, che rischia di essere il preludio di altre e ben peggiori – dal punto di vista degli interessi strategici del sistema paese – capitolazioni degli ultimi baluardi del capitalismo nostrano (Unicredit e Generali, che andrebbero ad aggiungersi a Telecom, già persa). Qui si tratta di sottrarsi al solito e sterile dibattito su mercato e Stato, per assumere un atteggiamento pragmatico ma risoluto di moral suasion per evitare la colonizzazione (in questo caso francese). In che modo? Suggeriamo al presidente del Consiglio di studiare bene come Renzi si è comportato nella vicenda Mps, e poi fare l’esatto contrario. Sapendo che ultimamente il barometro dei rapporti tra Mattarella e Berlusconi volge finalmente al bello. E questo aiuta non poco Gentiloni.

Naturalmente, la partita politicamente più scivolosa è quella della legge elettorale. Il presidente del Consiglio fa bene a pensare che il governo debba avere la mano leggera, e ha fatto bene a ricordare al Parlamento il ruolo che dovrà avere. Ma farebbe male a chiamarsi fuori. Deve fare un lavoro, tanto discreto quanto fattivo, dentro il Pd, e deve avviare contatti con Berlusconi – da quelle parti non gli mancano le entrature, e poi la vicenda Vivendi-Mediaset da questo punto di vista rappresenta una grande opportunità – con l’obiettivo di definire già prima del pronunciamento della Corte Costituzionale sull’Italicum il profilo della nuova legge. Anche qui, come e più che per la durata del governo, avrà Renzi come nemico. Al quale difetta, come abbiamo detto, l’analisi sul significato più vero del voto referendario. Ci pare, infatti, ma vorremmo tanto essere smentiti dai fatti, che al segretario del Pd sfugga il fatto che la vittoria del No abbia messo fine – ed era ora – alla lunga e per molti versi fallimentare stagione del maggioritario e dell’uomo solo al comando. Due facce, queste, della stessa medaglia, e cioè quella dell’illusione che esista una scorciatoia democratica per assicurare governabilità laddove l’offerta e la domanda politica faticano ad incontrarsi in modo virtuoso. Non si tratta di tornare al proporzionale puro della Prima Repubblica – alla quale peraltro vengono tuttora riservati giudizi ingenerosi – ma di scegliere una modalità istituzionale, per esempio quella tedesca, capace di dare il maggior potere decisionale possibile al governo senza per questo mortificare il parlamento ed evitando che ciò derivi da alchimie che consentano di formare maggioranze fittizie rispetto agli orientamenti dei cittadini. Chi blatera sul proporzionale dovrebbe riflettere sul fatto che l’abominevole sfilata di 42 partiti, partitini e mono-soggetti politici che si è vista al Quirinale nel corso della crisi non è certo figlia della congrua misurazione dei voti bensì delle forzature a suon di premi di maggioranza di questi anni, e che per assicurare un’adeguata semplificazione della rappresentatività basta e avanza l’uso di una soglia di sbarramento. Pierluigi Bersani, ospite lunedì scorso a Roma Incontra, è parso pienamente consapevole di tutto ciò. Adesso aspettiamo di vedere se lo sarà, una volta per tutte, la maggioranza del Pd.

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