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L'editoriale di TerzaRepubblica

SI o NO?

SÌ O NO? MEGLIO GIUDICARE QUELLO CHE È STATO FIN QUI CHE PRONOSTICARE GLI SCENARI DEL “DOPO 

 

25 novembre 2016

Gli italiani, pur con tutta la buona volontà, non ce l’hanno fatta a diventare dei costituzionalisti in erba. Anche perché, se ci fossero riusciti non ci sarebbe un numero rilevante di persone che vota Sì asserendo, in nome del cambiamento purchessia, che una riforma vale l’altra e che comunque una qualunque riforma (nella fattispecie questa) è meglio dello status quo. Ma è giusto così: perché dettagli incomprensibili persino ai tecnici della materia, e che però fanno la differenza tra una buona e una cattiva legge, tanto più se costituzionale, dovrebbero diventare la motivazione in base alla quale un qualunque cittadino decide (o meno) di andare a votare?

Infatti, o questa constatazione, impastata con un più generale sentimento di repulsione verso la politica e la cosa pubblica oggi diffuso, spinge a restare a casa, oppure sono altre le ragioni che tra una settimana indurranno gli italiani a recarsi alle urne e scegliere tra il Sì e il No. E se si toglie di mezzo il merito della riforma, non rimangono che ragioni di natura politica e psicologica, spesso sovrapposte le une con le altre. Queste si possono sostanzialmente dividere in due grandi famiglie. La prima riguarda il giudizio che si ha sul Governo e l’uomo che lo simboleggia, la seconda attiene alle conseguenze dell’esito del voto, sia sotto il profilo dell’auspicata stabilità (voto Sì) o discontinuità (voto No) politica e dell’esecutivo, sia sotto il profilo della temuta o meno turbolenza che si potrebbe scatenare sui mercati finanziari (tema caro ad un Paese che nel 2011 ha vissuto il dramma dello spread come preludio della bancarotta).

 E qui i cittadini mancati costituzionalisti sembrano invece essere tutti diventati politologi di lungo corso e analisti finanziari provetti. Aiutati, in questo atto di presunzione collettiva, dai pronunciamenti più disparati sia per l’uno che per l’altro dei due voti a disposizione. Per esempio, è buffo – per non dire sconcertante – vedere che a distanza di poche ore un guru del giornalismo economico europeo come Wolfgang Münchau, associate editor del Financial Times, preconizzi la caduta dell’euro, o comunque l’uscita dell’Italia da esso, se Renzi dovesse perdere la partita, e l’altra bibbia del giornalismo economico-finanziario, The Economist, che addirittura se ne esce con un caldo invito a votare No, naturalmente in nome delle stesse preoccupazioni del quotidiano concorrente. Ma non basta. Da agosto il controllo del blasonato settimanale britannico è passato nelle mani degli eredi Agnelli, che con la loro cassaforte Exor sono arrivati al 43,4% del gruppo Pearson, casa editrice dell’Economist, diventandone così il primo azionista. Saremo maliziosi, ma tendiamo ad escludere che il presidente e amministratore delegato di Exor, nonché presidente di quella che una volta si chiamava Fiat, John Elkann, non sia stato quantomeno informato di una scelta editoriale così delicata come quella comparsa sull’ultimo numero del settimanale. Ed è curioso che uno degli uomini più vicini e tifosi di Renzi – fino al punto di farsi fotografare l’uno a braccetto dell’altro allo stabilimento di Cassino proprio nelle ore immediatamente successive a quando in Italia si è scatenato il putiferio per l’Economist che vota No – sia nientemeno che il vicepresidente di Exor e amministratore delegato di Fca, Sergio Marchionne.

Tutto questo per dirvi quanto siano aleatorie, quando non del tutto false, le ragioni che nella campagna elettorale i due schieramenti hanno addotto e sempre di più caricano via via che ci si avvicina al fatidico 4 dicembre, per convincere gli elettori. Per carità, non siamo nati ieri e sappiamo bene che la ricerca del consenso non si ferma davanti a nulla. Ma proprio perché il grosso degli italiani non andrà alle urne avendo chiaro il valore delle riforme, o addirittura avendo deciso di prescinderne completamente, sarà utile riflettere sul fatto che intorno alle conseguenze politiche ed economiche del referendum è in atto una gigantesca speculazione. Questa sì, tra l’altro, in grado di generare – come ha già fatto – conseguenze penalizzanti per tutti. Pensate allo spread, che ha raggiunto, come non succedeva dall’ottobre del 2014, i 190 punti (55 in più del differenziale che separa i Bonos spagnoli dai Bund tedeschi), ed è pronto – si accettano scommesse – ad arrivare a quota 200 prima del voto. E siccome nessuno sa l’esito del referendum, è chiaro che questo rialzo (da agosto è salito di oltre il 50%) non può essere attribuito al Sì o al No, ma al referendum stesso, o meglio all’impronta dividente che gli è stata data e all’uso violento che se n’è voluto fare. D’altra parte, come si sa, i mercati “scontano”, cioè anticipano, gli eventi.

Ha dunque pienamente ragione il presidente Napolitano a lamentarsi del clima “aberrante” creatosi intorno a questo appuntamento, anche se forse la sua autorevole parola avrebbe dovuto essere spesa molto tempo prima, fin da quando, nella primavera scorsa, è stato evidente che la scelta di Renzi di rendere il referendum la chiave di volta della sua politica e lo strumento con cui regolare i conti con chi intendeva opporsi alla sua scalata al potere, avrebbe generato quel clima che ha poi bloccato il Paese per mesi e reso oltremodo instabile la politica. Il fatto poi che gli avversari (nemici) di Renzi ci abbiamo messo del loro (anche questo facilmente pronosticabile) aggrava la responsabilità di chi non ha fermato questa sorta di suicidio collettivo.

E sì, perché l’ordalia che si è scatenata è esattamente il contrario di ciò che l’Italia aveva bisogno nel 2016, anno di transizione tra la fine della recessione e l’inizio (che infatti non c’è stato, se non marginalmente) della ripresa. Ecco, mentre tutti parlano del “dopo” – e qui basterebbe leggersi i quattro scenari delineati magistralmente da Michele Ainis su Repubblica per capire che non succederà nulla di drammatico, e mettersi di conseguenza l’anima in pace – sarà il caso di ponderare cosa votare attraverso una riflessione sul “prima”. Si dice: ma a suo tempo Napolitano, quando prese atto (qualcuno dice favorì) il cambio tra Enrico Letta e Renzi dopo il famoso #staisereno, indicò le riforme costituzionali come mandato per il nuovo governo. Vero. Anche se si tratta di vedere se fosse “l’obiettivo” o “uno degli obiettivi” della legislatura. In tutti i casi, nulla giustifica che dopo la prima infornata di provvedimenti economici – pessimi come gli 80 euro o parzialmente buoni come il Jobs Act – da giugno 2014, cioè successivamente alle inebrianti (per Renzi) elezioni europee, che assegnarono al Pd quasi il 41% dei voti, nell’agenda dell’esecutivo e nella testa del primo ministro non ci sia stato altro posto e altro pensiero che la legge elettorale e il referendum costituzionale. Quest’ultimo immaginato da Renzi come strumento di legittimazione politica capace di spalancare le porte alla vittoria nelle successive elezioni politiche, con, appunto, il nuovo sistema di voto che avrebbe dovuto annientare chiunque osasse mettersi di traverso alla sua marcia trionfale.

Ma non è un caso che proprio in quel momento il vento che fino ad allora aveva gonfiato le vele della sua ascesa, abbia cominciato a soffiare sempre meno, fino a girarsi contro di lui. Nei suoi mille giorni (fin qui) di governo, è netta la cesura tra il prima e il dopo di quella clamorosa ubriacatura che per Renzi è stato il voto europeo. Noi qui lo dicemmo subito, e avvertimmo del pericolo che la sbronza diventasse dipendenza permanente, ma non ci sono orecchie più chiuse di quelle di chi non vuole sentire.

Ora, ci ritroviamo con l’Italicum che viene considerato dagli stessi che l’hanno concepito – tranne l’irriducibile D’Alimonte (non ce ne voglia, la coerenza è un merito) – come un ferrovecchio da buttare. E con le riforme per le quali sono stati spesi due anni a scriverle e approvarle e perso quasi uno a trasformarle in grimaldello politico attraverso la più lunga e insensata campagna elettorale che la storia repubblicana ricordi, che comunque vada a finire il referendum richiederanno molto altro tempo ancora. Nel caso della legge elettorale il cambiamento è un bene, perché si tratta di una norma sbagliata in sé e pericolosa perché rischia di spalancare le porte di Palazzo Chigi a Grillo e seguaci. Solo che l’entità del cambiamento dipende dal risultato di domenica prossima: con il No sarà totale, con il Sì saranno più lievi le eccezioni sollevate dalla Corte Costituzionale e ancor più lievi gli aggiustamenti che di conseguenza farà Renzi. Quanto ai cambiamenti costituzionali, il Sì richiederà mille aggiustamenti – anche i favorevoli ammettono che ci sono molte parti della riforma scritte male, altre incongrue e altre ancora monche – mentre il No dovrà invece portare alla formulazione di una nuova proposta, specie sul tema decisivo del titolo V.

Insomma, in tutti i casi avremo di fronte a noi una lunga, complessa e laboriosa fase di ridefinizione di ciò che ora è sul tavolo. E se a questo si aggiunge il fatto che, sempre in tutti i casi, la congiuntura ci costringerà a rimettere testa e mano alla politica economica, facendoci ben presto scoprire che la manovra di bilancio appena approvata alla Camera non solo non serve ad agganciare la ripresa (quella vera) ma essendo scritta sull’acqua aprirà buchi che potranno essere coperti solo con le lacrime e il sangue degli italiani, dovrebbe essere chiaro che sono ben altri gli occhiali – rispetto a quelli taroccati in circolazione – con cui occorre in quest’ultima settimana che ci separa dal voto guardare al 4 dicembre. Buona riflessione.

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