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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Trump spiana la strada al NO

LA VITTORIA DI TRUMP SPIANA LA STRADA (INDIRETTAMENTE) AL NO NEL REFERENDUM

11 novembre 2016

Il giorno dopo la vittoria di Trump, inaspettata solo per chi si ostina a leggere la società attraverso la lente deformata dei media, ci sono due domande che incombono più di altre. La prima è: che America, e dunque che mondo, sarà? E la seconda è: il voto americano che conseguenze produce sulle scelte di casa nostra, a cominciare dal prossimo referendum? Dare una risposta al primo quesito è difficile, per il semplice motivo che abbiamo conosciuto il Trump della campagna elettorale ma non conosciamo per nulla il Trump della Casa Bianca. Quello comiziante non ci piaceva, ma non per questo abbiamo mancato di vedere, non essendo accecati dal “politicamente corretto”, tutti i motivi per cui avesse più probabilità di indossare i panni del vincitore che quelli del perdente. Ora, l’esordio, con quel discorso così perfetto proprio perché opposto ai toni dei comizi, è stato molto tranquillizzante, e comunque la democrazia americana è forte proprio perché le sue istituzioni hanno la capacità di assorbire le forzature dei leader. Ma, certo, rimane la domanda su come si possa passare dai registri populisti ed estremisti della campagna elettorale, necessari a convincere quanti più potenziali astenuti ad andare alle urne, a quelli di un sano pragmatismo di governo. Noi, con i grillini e affini (De Magistris, per esempio) che hanno conquistato alcune città, ne sappiamo qualcosa. E temiamo che questo sia il nodo che rischia di strangolare tutte le democrazie occidentali. Nelle cui viscere si è generato un malcontento che discende, a torto o a ragione, dalla percezione di impoverimento, o dalla paura di esserne vittime, che deriva dalla competizione che nel mondo globalizzato viene soprattutto dai paesi “ademocratici”, che godono del vantaggio di meccanismi decisionali rapidi. Malcontento che alimenta il rifiuto della politica e l’astensione dal voto, fenomeno che a sua volta mette in condizione di vincere le elezioni chi agita le parole d’ordine dell’anti-politica e usa toni estremisti che fanno leva sulle paure dei cittadini, molto più di chi si presenta come moderato e converge verso il centro nel tentativo di conquistare potenziali voti altrui. Per questo l’altra notte più che vincere Trump ha perso Hillary Clinton.

I nostri lettori con i capelli bianchi ricorderanno che negli anni Settanta un intellettuale di cui oggi si è perso lo stampo, Alberto Ronchey, parlava di “rivoluzione delle aspettative crescenti”, che più tardi finì per descrivere come una vera e propria “schiavitù”. Pescò dal pensiero di Alexis de Tocqueville, che formulò la teoria delle “aspettative crescenti” nel 1856, studiando la rivoluzione francese, dopo aver pubblicato anni prima la monumentale opera “La democrazia in America”, tuttora un caposaldo della cultura liberale più autentica. Egli affermava che una rivoluzione esplode non quando la situazione economica è drammatica, bensì quando migliora ma in misura non sufficiente da soddisfare le aspettative della popolazione. Insomma, tanto più è grande la differenza tra aspettative (illusioni) e realtà (disillusioni), tanto più probabile sarà la rivoluzione. Che ai giorni nostri, nell’alveo della democrazia rappresentativa, prende le sembianze del consenso ai populisti che senza freni fanno leva sulle caduta della aspettative. E non c’è dubbio, come dimostra il voto americano ma come ha dimostrato la Brexit e la crisi in Europa e dell’Europa, che oggi siamo entrati in una stagione che Ronchey non esiterebbe a definire delle “aspettative decrescenti”, e che a queste occorre trovare le giuste risposte.

Di qui all’Italia il passo è breve. Noi siamo nel pieno di questa stagione regressiva, e la vicenda del referendum – e a monte delle riforme istituzionali come risposta alle attese della società – dimostra che non ne abbiamo capito né i termini né la portata. Anche perché, per colpe tutte e solo interne, noi abbiamo aggiunto alle inquietudini che attraversano società ben più ricche della nostra il portato di un declino strutturale e di una recessione senza eguali altrove, che moltiplica gli effetti dei problemi globali. Per questo è probabile che al referendum vinca il No, così come che ad elezioni politiche prevalgano forze radical-populiste (5stelle e Lega), perché nell’uno come nell’altro caso è la casta il soggetto da battere. Ma attenzione: nel referendum la sconfitta dei promotori delle riforme (malfatte) e della consultazione assurdamente concepita come giudizio epocale su Renzi e il suo governo, è il prezzo da pagare proprio per evitare che al voto elettivo moderati e riformisti si facciano la guerra a tutto vantaggio dei populisti. Mentre nel caso di elezioni politiche la vittoria dei grillini, magari aiutati dai lepenisti di Salvini (e forse della Meloni), avrebbe un effetto disastroso. Nel caso di Trump, almeno, abbiamo il beneficio del dubbio su come si comporterà – peraltro a fronte della certezza di come si sarebbe comportata la Clinton, esponente del peggior establishment che gli Stati Uniti abbiano mai prodotto – mentre nel caso di Grillo possiamo avere, aiutati nel giudizio anche dallo spettacolo indecoroso e pericoloso dell’amministrazione Raggi a Roma, solo delle certezze, ahinoi.

Tra l’altro, la vittoria di Trump aiuta il No. Sia perché lo sdogana, sotto il profilo psicologico, presso coloro, e non sono pochi, che finora si sono vergognati al solo pensiero di avere voglia di dire di No. E sia perché con la reazione dei mercati cui abbiamo assistito – che in poche ore non solo hanno assorbito la sorpresa, ma si sono sintonizzati sulla nuova realtà del potere Usa, premiandola con clamorosi rialzi delle Borse tali da spingere Wall Street ai massimi storici – cade una delle meno vere ma più diffuse e sentite (specie nella borghesia affluente) argomentazioni pro Sì. E cioè la paura che una bocciatura della riforma costituzionale possa produrre chissà quali drammatiche conseguenze sui mercati finanziari. Se non è successo con un cataclisma politico di valenza globale come l’elezione di Trump, figuriamoci se avviene per un passaggio ininfluente della vicenda politica dell’ininfluente (sul piano internazionale) Italia.

Ma tutto questo è comunque relativamente marginale. Ciò che più conta è che una larga fetta di italiani veda in Renzi quei tratti di cattivo establishment, autoreferenziale e bugiardo, che gli americani hanno visto in Hillary. Con la differenza che la famiglia Clinton quel titolo se l’è conquistato con un paio di decenni di potere, pervasivo e spesso assoluto, mentre il giovane Matteo a farsi crocifiggere ci arriva quarantenne, dopo soli tre anni a palazzo Chigi e per di più essendosi affermato a colpi di slogan sulla rottamazione e sulla rivoluzione generazionale. Un po’ se ne rende conto, Matteo, ma sbaglia antidoto: cavalca il populismo – basti sentire le parole d’ordine usate in questa interminabile campagna referendaria, tutte grondanti anti-politica – nella speranza di recuperare i consensi che Grillo gli porta via (come li porta via al centro-destra). Ma è una pia illusione: la gente non è stupida, e tra la copia e l’originale sceglie sempre il primigenio. “L’establishment populista non può esistere, è una contraddizione in termini”, ha felicemente sintetizzato Stefano Folli. Renzi, invece, dovrebbe invece impratichirsi con tre verbi: ascoltare, studiare, ragionare. Voi ci credete? Noi No. Ma saremmo felici di essere smentiti.

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