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L'editoriale di TerzaRepubblica

Referendum apocalisse

CI MANCAVANO QUEGLI INCOSCIENTI DI MOODY’S A GETTARE BENZINA SUL FUOCO DEL REFERENDUM APOCALISSE

14 ottobre 2016

Tira una brutta aria. Bruttissima. Non si parla d’altro, ossessivamente, che di referendum (Si-No) e di Renzi (pro-contro) con una veemenza polemica degna di miglior causa e che neppure ai tempi del vituperato Berlusconi ha raggiunto toni così alti. Persino l’evocazione dell’apocalisse da parte della (pessima) Clinton nei confronti del (pessimo) Trump, rischia di impallidire. Adesso ci mancavano quegli incoscienti di Moody’s, l’agenzia di rating nota per i giudizi (sballati) sulla Lehman Brothers, a versare benzina sul fuoco con la catastrofica profezia secondo cui la vittoria del No e le eventuali dimissioni di Renzi incrinerebbero la fiducia degli investitori esponendo le banche italiane bisognose di nuovo capitale al rischio di non trovarlo, con conseguenze rovinose. Un vero e proprio ricatto morale. Che sarebbe stato altrettanto inaccettabile se i dispensatori di pagelle finanziarie avessero pronosticato scenari altrettanto apocalittici in caso di vittoria del Sì.

Sono settimane che lo diciamo, e non ci stancheremo di ripeterlo: così ci facciamo del male, quale che sia l’esito della consultazione. Cesare Romiti, che col passare degli anni si è trasformato da duro a saggio, lo ha detto come meglio non si poteva: neppure nel 1948 ci siamo lacerati così; Renzi non doveva dividere il Paese, che rimane pur sempre la terra dei guelfi e dei ghibellini, drammatizzando il referendum, e i suoi avversari non dovevano rendergli pariglia evocando la fine della democrazia. Sì, è vero, la contrapposizione tra democristiani e comunisti, oltre che più nobile, vide sempre rispettarsi De Gasperi e Togliatti. Certo, nella Costituzione che scrissero insieme c’è traccia del compromesso catto-comunista, e sarebbe ora di toglierle quella patina di paternalismo e renderla più adatta ad un paese capitalista moderno. Ma quella Carta, e i lavori della Costituente che servirono a stenderla, furono rappresentativi dell’Italia di allora. Quel compromesso era necessario, e fu utile trovarlo. Oggi è necessario cambiare, ma non è possibile presentare una riforma della Costituzione molto parziale – e discutibile, aggiungiamo noi, ma non è questo giudizio a spostare di una virgola il problema – come se fosse il giudizio universale. Oggi questa assurda guerra ci consegna un paese spaccato in tre: il partito degli sfiduciati, che da tempo è, e rimane di gran lunga, quello di maggioranza relativa, e i due plotoncini del Sì e del No, che sono composti più da difensori e denigratori di Renzi che da consapevoli sostenitori (nel merito) di entrambe le tesi referendarie. Due partiti trasversali, sul piano politico come su quello antropologico, che il 4 dicembre nella stragrande maggioranza dei casi finiranno per esprimere un giudizio sul Governo (e quindi sulla figura di Renzi), ponendo così le premesse per una cattiva approvazione o una cattiva disapprovazione della riforma costituzionale, e per avviare il Paese verso le elezioni anticipate (alla faccia della tanto evocata stabilità). Perché in entrambi i casi il presidente del Consiglio avrà interesse ad andare alle urne: se avrà prevalso il Sì, per trasformare quella vittoria referendaria in una vittoria parlamentare e avere mano libera nel regolare i conti con i suoi nemici dentro il Pd; se avrà vinto il No, per ridurre gli effetti della sconfitta, sapendo che nessuno si potrà intestare (o quantomeno, non come lui il Sì) quell’esito, anche perché nel caso sarà stato prevalentemente un voto contro, e contando (a torto o a ragione) sulla sua presunta insostituibilità (che spinge molti, specie nel mondo del business, a votare Sì) per essere ancora lui il candidato del centro-sinistra.

Insomma, comunque vada, l’Italia ne uscirà sconfitta, dopo aver già pagato – specie sotto il profilo economico – un prezzo alto all’assurdità di una campagna elettorale totalizzante durata da aprile a dicembre. Per questo noi coltiviamo la speranza che il risultato del referendum sia il più equilibrato possibile. Una manciata di voti di scarto sarebbe l’ideale. Può sembrare assurdo, ce ne rendiamo conto, ma è così. Perché una vittoria netta, quale che sia, avrebbe – al di là che anche con un voto di differenza si mantiene o si cancella la riforma – esiti alquanto problematici: da un lato, il Sì soverchiante renderebbe irrefrenabile in Renzi il suo già debordante senso di onnipotenza e lo spingerebbe a credere che agitare parole d’ordine di tipo populista (come quell’inguardabile tweet sui 730 contro 950 politici con immunità se vince il Sì) paghi, illudendolo che ciò si ripeta anche ad elezioni politiche, magari in un ballottaggio con i grillini; dall’altro, una valanga di No rischierebbe di far prevalere l’idea che la Costituzione non si possa toccare e non che andava (e andrebbe) modificata in alcun altro modo. Viceversa, il “quasi pareggio” darebbe più consapevolezza alle parti ora in guerra di essere minoritarie nel Paese, rendendo così indispensabile ciò che già oggi dovrebbe apparire agli occhi di tutti necessaria: un’alleanza tra moderati e riformisti.

Questa analisi induce a non andare a votare? Speriamo di no. In altri referendum, con il quorum di mezzo, la scelta di non recarsi alle urne era, oltre che legittima, utile per far prevalere il No (ultimo caso, la consultazione sulle “trivelle”). In questo caso non esprimersi non incide sul risultato finale, e tanto basta per fare lo sforzo di andare ai seggi. Ma chi si sentisse frastornato e stomacato avrebbe tutta la nostra umana comprensione.

 

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