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L'editoriale di TerzaRepubblica

All'Italia serve un Piano Marshall

SOLO UN PIANO MARSHALL DI MODERNIZZAZIONE DEL PAESE PUÒ RENDERE CREDIBILE IL “NUOVO” CORSO DI RENZI

02 settembre 2016

Il centro-destra, con il tentativo Parisi, ha ridato segnali di esistenza in vita, ma, come dimostrano le guerre interne sia dentro Forza Italia che nella Lega con il ritorno di Bossi (che al cospetto di Salvini appare saggio…), è ancora ben al di là anche della sola decente presentabilità. I 5stelle mostrano in modo inequivocabile tutti i loro limiti di forza populista inadatta a ricoprire ruoli di governo. In particolare a Roma, dove è a dir poco clamorosa la dimostrazione di incapacità della dilettantesca classe dirigente rabberciata da Beppe Grillo, fino al punto da rendere plausibile la battuta circolata al loro stesso interno durante la campagna elettorale per il Campidoglio “c’è un complotto per farci vincere...”. A sinistra, dentro il Pd come ancor peggio fuori, non alberga uno straccio di idea, ma solo consunti riflessi condizionati d’antan e tanta voglia di consumar vendette.

Insomma, non essendoci (ancora) una seria alternativa al presidente del Consiglio, la ripresa politica dopo la pausa d’agosto è tutta incentrata sulla valutazione della cosiddetta “conversione di Renzi”. Cioè di quel cambiamento – non si sa se reale o di mera facciata, ed è questo (in mancanza d’altro) l’argomento di discussione – che l’unico mattatore della vita politica italiana ha deciso di fare da qualche tempo a questa parte. Il Paese perde colpi, soprattutto sotto il profilo economico, con la fiducia di famiglie e imprese in netto e preoccupante calo, e il dopo terremoto ha ben presto assunto, come si temeva, i contorni della querelle mediatico-giudiziaria, con l’aggiunta dell’immancabile vescovo che trasforma l’omelia in comizio (Domenico Pompili a Rieti). Ma pur di fronte a problemi di questa portata, il nocciolo della questione su cui tutti s’interrogano finisce per essere se siamo al cospetto di un nuovo Renzi o se abbiamo ancora a che fare con quello vecchio.

Il busillis, per la verità, l’ha alimentato lo stesso primo ministro: facendo pubblicamente ammenda per aver personalizzato la campagna referendaria (se avesse aggiunto di aver anche sbagliato ad anticipare così tanto i tempi, l’autocritica sarebbe stata più credibile); rettificando (molto nelle intenzioni, assai meno nella sostanza) la modalità della comunicazione, rendendola meno aggressiva, polemica e strafottente; cogliendo l’occasione del terremoto per essere (o apparire) più inclusivo. La stessa decisione di andare a Cernobbio, portandosi dietro mezzo governo, quando due anni fa agli esordi aveva fatto un punto d’onore e di distinzione non essere presente a quella parata di establishment, la dice lunga sul fatto che molte cose sono davvero cambiate (anche se il discorso al Forum Ambrosetti è stato privo di novità). È ormai lontano il tempo del Renzi rottamatore, della ricerca del nemico a tutti i costi, della polemica a sinistra e nei confronti dei sindacati, dell’irrisione verso l’opposizione interna al suo partito. Pure del (misterioso) partito della nazione non si sente più parlare. Bene, per molti versi nella “rupture” di Renzi, accanto ai promettenti strappi nei confronti dei vecchi tabù d’origine sessantottesca, c’erano dosi troppo massicce di populismo e di pressapochismo per dover piangere sul latte versato. Ma è il fatto è che il dopo non s’intravede, è il disegno che sembra mancare.

A noi qui non interessa indagare se il “nuovo Renzi” c’è o solo ci fa, è mestiere che lasciamo al giornalismo gossiparo e dietrologico. Interessa, invece, capire se il ragazzo è maturato e diventato uomo, se il politico sfacciato si è trasformato non si dice in uno statista (in giro non ce ne sono, e non solo in Italia, da molto tempo) ma almeno un governante serio e preparato. Che è poi quello che vuole la maggioranza degli italiani, quella silenziosa e laboriosa, senza badare più di tanto a distinzioni tra destra e sinistra.

Una risposta piena e definitiva non c’è. Ma una cosa è sicura: non può bastare che l’alternativa non esista o comunque sia peggio. L’Italia ha bisogno di cambiamenti strutturali – politici, istituzionali, economici, sociali, culturali – troppo vasti e profondi, e attesi ormai da un quarto di secolo, per poterci accontentare del “meno peggio”. La questione del dopo terremoto lo testimonia: aver colto che la risposta non può essere solo il programma di intervento nelle zone colpite, ma una generale messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale, sia dai rischi sismici sia da quelli idrogeologici, è andare nella direzione giusta. Ma perché quel “casa Italia” non si risolva in uno slogan vuoto, occorre saper mettere in campo un vero e proprio “piano Marshall” di modernizzazione del Paese, trovando le risorse nell’ambito di una ristrutturazione del debito pubblico – mettendo in gioco il patrimonio pubblico e chiamando a concorrere quello privato – e saper raccogliere il consenso e organizzare le forze necessari a sostenerlo. Cose vere, non chiacchiere televisive. Le scelte di figure come Vasco Errani, amministratore pubblico di lungo corso, e di Renzo Piano, star mondiale dell’architettura e senatore a vita, sono indiscutibili. Ma nello stesso tempo paiono viziate da furbizia comunicazionale, che rischierebbe di prendere il sopravvento se sotto quei bei vestiti rimanesse il niente. Romano Prodi ha scritto che serve un “piano trentennale”. Niente di più vero. È il respiro dei progetti, resi impermeabili alle crisi politiche e al succedersi delle legislature, che distingue il politicante dall’uomo di governo serio. E su questo non ci siamo ancora. Così come mancano chiarezza e coraggio nella revisione, che sembra essere in corso ma nella quale Renzi come minimo eccede in tatticismo, della posizione del governo su legge elettorale e riforme costituzionali. Perché aspettare la sentenza della suprema Corte per dire che l’Italicum è una schifezza e che va accantonato a favore di una legge di stampo europeo, tedesca (come noi preferiamo) o francese che sia? Perché non cogliere il senso profondo del suggerimento di rinunciare al referendum – cancellarlo, non spostarlo in avanti di qualche settimana – del Nobel Joseph Stiglitz, di certo non tacciabile di biechi interessi o collusione con il nemico, e aprire una fase politica veramente e completamente nuova? Stiamo parlando di un cambio di strategia, non di mutamenti solo tattici. Anche perché è ancora troppo forte, nel mondo politico ma anche nell’elettorato, il ricordo del renzismo d’assalto perché di fronte al gioco tattico non prevalga la diffidenza, sia di chi fino a ieri non ha amato il suo disprezzo per il dialogo sia di chi teme il suo ripiegamento dal decisionismo muscolare verso il consociativismo e l’appiattimento sui poteri più forti (meno deboli, sarebbe meglio dire). È il momento di sposare il coraggio intelligente del cambiamento con la solidità di comportamenti credibili. Se il “nuovo Renzi” se ne dimostrerà capace, bene, altrimenti non sarà la mancanza di alternative a salvarlo.

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