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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Dalla Renxit alla Brexit

DALLA RENXIT ALLA BREXIT, IN EUROPA NON SONO I POPULISTI A VINCERE MA GLI ESTABLISHMENT A PERDERE 

25 giugno 2015

Tanto tuonò che piovve. In Italia e nel Regno (dis)Unito. In attesa della Spagna e, poi, degli Stati Uniti. Avevamo suggerito, alla vigilia del secondo turno delle nostre amministrative, di aspettare ad emettere giudizi, perché il voto sulla Brexit e il tentativo di ridare una maggioranza di governo alla Spagna sarebbero stati indicatori non meno importanti per capire l’aria che tira in Europa, e quindi anche in Italia. È poco elegante dirlo, ma avevamo ragione: in queste ore tutte le chiacchiere post ballottaggi sono state spazzate via dal moto di stupore che ha accompagnato la scelta “out” inglese e le brutali reazioni dei mercati finanziari che sono seguite. E manca ancora il voto spagnolo, che sarà molto utile per capire se abbia o meno freni il vento populista e neo-nazionalista che soffia sul Vecchio Continente. Di certo, già oggi possiamo dire che il filo rosso che lega il voto italiano e inglese si chiama discontinuità. Uniti dal suffisso “exit” – Renxit e Brexit – sono due pronunciamenti contro le élite, locali (Fassino, il Pd romano), nazionali (Renzi) e continentali (la Ue). Cui, allo stesso modo, potrà aggiungersi il voto spagnolo (contro il Pp di Rajoy ma anche contro il Psoe) e, con sempre maggiore possibilità, quello americano (contro la Clinton e l’establishment che rappresenta), ben più importante in termini di ricadute globali. A dimostrazione, come dicevamo la settimana scorsa, di un malessere che attraversa il mondo occidentale, che è sì uscito – pur con grandi disparità di tempi e intensità – dalla recessione innescata dalla grande crisi finanziaria nata nell’estate del 2007 e divampata tra il 2008 e il 2009, ma che non ha affatto rimosso le cause (e molte delle conseguenze) di quest’ultima. Fateci caso: sociologicamente è identico il voto ai 5 stelle (quelli del grido “onestà, onestà”), alla Brexit auspicata dai nazionalisti di Nigel Farage (che non ha caso ha detto che il referendum segna “la vittoria della gente comune contro le grandi banche, il grande business e i grandi politici”) così come per Podemos e per Syriza (a sinistra) o per il Front National della Le Pen o per l’olandese Pvv (a destra).

Si tratta del ceto popolare e medio, impoverito dalla crisi e incattivito dal ricordo di un passato in cui stava meglio, delle periferie dei grandi centri urbani, spaventate dagli immigrati e dall’alto tasso di criminalità, ma anche della borghesia resa affluente dalla rendita e terrorizzata dal fatto che i processi di modernizzazione e globalizzazione la penalizzino e che il terrorismo di matrice islamica abbia il sopravvento. Tutta gente che, mischiando emarginazione, reazione alla povertà in cui sono e paura della povertà in cui potrebbero cadere, orgoglio nazionale quando non localistico, ribellione contro le burocrazie e le regole, nostalgia dei tempi migliori, si affida a chi gli appare nuovo, disomogeneo, fuori dagli establishment. E che sollecita il voto con parole d’ordine che vanno incontro a quel miscuglio di sentimenti. È il motivo per cui riteniamo (a oggi) che alle presidenziali americane di novembre sia più probabile che passi Trump, non a caso felicissimo della vittoria del “leave” sul “remain” in Gran Bretagna.

Questa analisi porta alla conclusione che non sono i partiti populisti a vincere, ma i partiti tradizionali (e in particolare quelli al governo) a perdere. Questi ultimi sono la febbre, i primi il termometro che la misura e quindi non la medicina che la guarisce. Ciò significa che va evitato un doppio errore: confondere la diagnosi con la cura e credere che basti urlare rabbia (pur comprensibile) e sollevare problemi (pur esistenti) per essere capaci di risolverli; conservare l’esistente, in nome della preoccupazione (pur legittima) che la toppa sia peggio del buco.

Diciamo questo, a proposito della Ue, perché l’amico Giorgio La Malfa ci ha scritto dicendo di temere che TerzaRepubblica partisse dalla sottaciuta premessa che “si debba, pur con tutti i difetti che ne conosciamo, salvare la costruzione europea”. Non è così. Siamo d’accordo con lui che la crisi europea abbia raggiunto un punto di non ritorno. Ma questo, però, non significa che l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa non si debba e non si possa più perseguire. Certo, non è perseguibile partendo da “questa” Europa. Occorre ripartire, ricominciare. Che è cosa diversa dal proseguire. Ma occorre farlo, almeno fino a che la globalizzazione prevale, se si vuole evitare di essere solo un puntino sulla carta geografica mondiale. E se si vuole scansare il pericolo della disgregazione non solo europea ma anche nazionale, che il voto inglese ci fa vedere con nitida chiarezza visto che ci consegna la fine del Regno Unito. Purtroppo, le prime reazioni alla Brexit ci fanno temere che le diverse cancellerie non abbiano capito la lezione. E non tanto per qualche piccato riferimento all’idea che ora con gli inglesi non si debba trattare (è giusto che si prendano le responsabilità della loro scelta) o all’auspicio che il Regno vada in pezzi (se Scozia, Irlanda e Gibilterra vogliono uscire dallo UK ed entrare nella Ue siano benvenute), quanto per la solita mancanza di autocritica (la stessa che è mancata nelle ripetute crisi greche) relativamente alla mancata integrazione politico-istituzionale, che stride con l’esistenza dell’euro fino al punto da mettere a repentaglio la stessa moneta unica e impedire la convergenza delle economie e rendere precarie le poche cose messe in comune (come la regolazione del sistema bancario).

Venendo all’Italia, è evidente che queste elezioni amministrative, pur contenendo elementi propri (locali e nazionali) vanno inquadrate nel contesto fin qui descritto. Perché sono due le valutazioni più significative che occorre fare. La prima è che laddove i partiti tradizionali riescono a mettere in scena candidature credibili in contesti non degradati (come a Milano) le forze anti-sistema non battono chiodo, mentre al contrario vincono senza eccezioni (i grillini si sono aggiudicati 19 ballottaggi su 20), anche laddove (Torino) il sindaco uscente è stimato ma non ha un avversario “tradizionale” all’altezza (contro Fassino il centro-destra aveva tre candidati). La seconda valutazione è che Renzi, pur avendo incarnato all’inizio della sua avventura di governo il perfetto punto di equilibrio tra il nuovo (con concessioni al “nuovismo” populista che parevano sopportabili) e il tradizionale (la vocazione governativa del Pd), è deragliato fino ad apparire ai più o troppo peronista o troppo establishment (e per di più ristretto). Due difetti contrapposti che lui è riuscito nella miracolosa impresa di incarnare contemporaneamente. Renzi, inoltre, è rimasto vittima del suo ambizioso (pretenzioso) racconto del Paese, di cui gli italiani hanno atteso invano la ricaduta nella realtà.

Per questo non c’è dubbio che nel voto amministrativo c’è stata una componente anti-renziana non indifferente, che il presidente del consiglio e segretario del Pd (quando si deciderà a separare le due cose sarà sempre tardi) ha finito con l’alimentare quando, per timore di apparire quello che non ammetteva la sconfitta, ha usato la stessa valutazione di Grillo a commento del voto: “ha vinto la domanda di cambiamento”. Il che può voler dire due cose: non avete capito quanto io rappresenti il rinnovamento; non ho cambiato a sufficienza. La seconda rappresenterebbe una forma di autocritica che non gli è congeniale, dunque con tutta probabilità opterà per la prima interpretazione. In tutti i casi, sarà la solita solfa del racconto mediatico. Invece che mettere a punto le politiche, palesemente deficitarie, si metterà a punto la comunicazione. Avrebbe voluto aggiungere: adesso rivoltiamo il partito come un calzino, ma tra il primo e il secondo turno prudenza gli ha consigliato di riporre l’evocato lanciafiamme in cantina.

Questo fino a quando di fronte a Renzi non si è spalancata la “exit” dall’angolo in cui il voto lo aveva cacciato: acchiappare la Brexit al volo e costruire, un po’ dando la colpa a Londra e un po’ a Bruxelles e Berlino, la narrazione di una fase due del Governo caratterizzata dalla lotta contro l’ottusità europea, dalla decisione di far fare al fiscal compact e ai Trattati Ue la stessa fine che i listini di Borsa hanno avuto in questo maledetto venerdì nero. È naturalmente una suggestione, ma siamo pronti a scommettere che Renzi la userà, almeno narrativamente, come la sua “exit strategy”. Ci permettiamo di dubitare che il gioco di prestigio riuscirà.

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