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L'editoriale di TerzaRepubblica

Amministrative, rischio populismo

AMMINISTRATIVE SURREALI MA ORA EVITIAMO CHE LE NOSTRE CITTÀ FINISCANO NELLE MANI DI POPULISTI INCOMPETENTI

03 giugno 2016

Si è chiusa, finalmente, una campagna elettorale surreale, dove tutta l’attenzione anziché essere dedicata al voto amministrativo si è quasi esclusivamente concentrata sul referendum del prossimo ottobre. Eppure si tratta di decidere da chi e come saranno amministrate la Capitale e molte delle più importanti città italiane, da Milano a Torino, da Napoli a Bologna. E ancora ancora di queste qualcosa sul piano nazionale si è detto e letto, ma sfidiamo chiunque non sia un loro abitante a dirci che sa che si vota anche a Trieste, Bolzano, Ravenna, Cagliari, Rimini, Salerno, Brindisi, Latina e Novara. Il cuore dell’Italia è in ballo, ma da settimane ci si divide – o meglio, si pretende che ci si divida – tra modernizzatori (che secondo Renzi sono quelli che voteranno Sì) e conservatori (che sempre secondo il presidente del Consiglio sarebbero quei fessi che sono intenzionati a votare No). Inoltre, queste elezioni riguardano i Comuni, cioè l’unico organo del decentramento amministrativo che funziona (funzionicchia…) o che comunque va salvato rispetto alle Province (cancellate solo sulla carta) e le Regioni (cui in tempo di contro-riforma del Titolo V della Costituzione le si vuole gratificare affidando loro il Senato, mentre andrebbero come minimo ridotte drasticamente di numero e di competenze, e come massimo abolite).

Infine, pur essendoci liste civiche ovunque, la presenza di tutte le componenti nazionali con posizioni di rilievo assicura al turno elettorale una valenza politica generale, capace di dare indicazioni precise su come il quadro politico è destinato ad evolvere (o involvere). E questo assegna al voto di domenica un valore ancor più rilevante. Per esempio, ci dirà se i pentastellati – sempre meno grillini ma non si sa ancora bene che cosa – sono maturi per arrivare a posizioni di governo rilevanti, oggi nelle maggiori città domani per conquistare Palazzo Chigi. Ci dirà pure in che misura il Pd, ormai del tutto renziano – non per merito del premier ma per demerito dei suoi avversari interni, a dir poco pasticcioni – sia attestato sui numeri delle elezioni europee (40%), o se invece non debba prendere atto che il meccanismo dell’Italicum, pensato sulla scorta di quel successo, vada ripensato prima che i frutti di quel “geniale” meccanismo elettorale vadano tutti ai 5stelle. E il voto ci dirà (e dirà soprattutto a Landini) se c’è spazio, e di quale entità, a sinistra del Pd (occhio a Fassina a Roma, Airaudo a Torino e Rizzo a Milano). Soprattutto, il voto ci farà scoprire se esiste un centro-destra o, come noi speriamo, se ne esistono due, uno moderato (e magari capace di prescindere da Berlusconi) e uno lepenista, probabilmente destinato prima o poi a fare comunella con i “figli di Grillo”. Infine, sapremo se la tendenza ad astenersi, non come sintomo di disinteresse qualunquista ma come scelta consapevole e legittima, sarà ancora una volta in crescita, a segnalare che c’è un enorme bacino potenziale di voto che però richiede, per essere intercettato e riportato alle urne, non una generica e sguaiata critica al sistema – come fin qui è stata quella dei 5 stelle – ma una proposta nuova, impiantata in una cultura politica non novecentesca e pur tuttavia non estranea ai filoni di pensiero radicati in Occidente.

Prendete il caso di Roma, città già difficile da amministrare per ragioni dimensionali e antropologiche, e che il declino brutale in cui è scivolata ha reso ancor più ingovernabile. La difficoltà dell’impresa avrebbe richiesto candidature “pesanti” e “pensanti”. Invece, in un contesto di scarsissima mobilitazione e partecipazione popolare, abbiamo assistito ad un confronto fatto di parole d’ordine “constatative” – le buche, la sporcizia, il traffico caotico, i trasporti che non funzionano, il degrado ambientale, la sicurezza che manca – senza mai alcuna spiegazione delle cause che sono all’origine del dissesto e totalmente privo di ogni indicazione (non si dice elaborazione) programmatica. Non una parola sulle vocazioni della città e dunque sugli strumenti per favorirle. Non un accenno a come fare a gestire (non si dice sanare) la montagna di debito lasciato in eredità da decenni di cattiva amministrazione. L’unica idea-forza (sic) evocata da tutti è l’onestà, che notoriamente è una precondizione e che comunque in politica si misura con il buongoverno, non con gli atti (lenti e discutibili) della magistratura.

Da questo romano, come dagli altri confronti elettorali, è sostanzialmente rimasto estraneo Renzi. Nella sua veste di presidente del Consiglio, bene ha fatto. Nella sua veste di segretario del Pd, dovranno essere gli iscritti al partito a giudicarlo. Ma una cosa è certa: visto questo suo secondo ruolo, per lui sarà difficile chiamarsi fuori quando si andranno a contare i voti e i nomi dei sindaci eletti. In molti, che gli sono ostili, in questi giorni hanno già messo le mani avanti: se perderà Roma, se perderà Milano, se le perderà entrambe e dando per scontato che Napoli se la scorda, se addirittura inciamperà anche a Torino o Bologna, e così via. Noi che lo abbiamo costruttivamente criticato ma non ci siamo iscritti al partito degli anti-renziani, preferiamo attendere lunedì. Non lunedì prossimo, ma il 20 giugno, quando saranno conclusi i ballottaggi, cui prevediamo si dovrà ricorrere quasi ovunque.

Non spetta a noi dirvi per chi votare, anche perché negli ultimi anni abbiamo faticato così tanto a dirlo a noi stessi che spesso abbiamo scelto l’astensione come male minore. Una scelta a nostro avviso più dignitosa che il cosiddetto “voto di dispetto”, come è la grandissima parte dei consensi dati ai signori del “vaffa”. Questa volta no, però. Questa volta, almeno laddove, come a Roma, l’ascesa dei 5stelle fa pronosticare una loro vittoria – attesa basata sulla constatazione che sono tantissimi i cittadini che dicono: peggio di così non può andare, tanto vale dare uno schiaffo ai vecchi partiti – crediamo sia bene andare a votare proprio per scongiurare quell’eventualità. Oggi in Campidoglio, domani a Palazzo Chigi.

Vi confessiamo che per qualche tempo abbiamo coltivato la speranza che la signora Raggi fosse una grillina anomala, o addirittura estranea. Magari un’opportunista salita su un tram con posti vuoti, ma comunque non un’obbediente ai comandamenti e agli ordini della Ditta Grillo & Casaleggio. Ma più passava il tempo, e più la speranza veniva meno. Fino a scomparire del tutto quando, da un lato, si è messa a spararle grosse (dalla funivia per risolvere il traffico romano ai pannolini riciclabili fino all’economia del baratto) proprio come il guitto Grillo ha sempre fatto, e dall’altro quando l’abbiamo vista allineata e coperta al diktat di Casaleggio di fronte al caso Pizzarotti. Sentirla dire “mi dimetterei da sindaca se me lo chiedesse lo staff”, francamente ci ha fatto rabbrividire. Così come sentire Di Maio sparare la boiata pazzesca degli “assessori a tempo determinato”.

Si dice: ma proprio per queste debolezze, dopo l’exploit iniziale, la Raggi ha perso punti, non ce la farà. Può essere. Ma al ballottaggio è ragionevole pensare che ci arrivi senza problemi. E allora, il quesito da porsi, per chi vuole evitare di mandare al Campidoglio l’incompetenza, è chi scegliere tra Giachetti, Meloni e Marchini. Attenzione, non chi scegliere in assoluto, ma capire chi abbia le caratteristiche più adatte per giocarsela contro la Raggi al ballottaggio. Per saperlo, basta consultare le teorie sulla prevalenza dell’elettore mediano che sociologi e politologi hanno elaborato. Facendolo, scoprireste che Marchini sarebbe in vantaggio, per il semplice motivo che la sua posizione centrale e trasversale gli consentirebbe più facilmente rispetto a chi sta a destra e a sinistra di avere una maggiore forza di attrazione dell’elettorato. Lo avremmo preferito emancipato da Berlusconi, ma è pur sempre l’unico che può evitare un’ulteriore paralisi e dare un governo forte a Roma.

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