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L'editoriale di TerzaRepubblica

Caso Guidi e referendum

IL “CASO GUIDI” NON C’ENTRA CON IL REFERENDUM DEL 17 APRILE ASTENSIONE CONSAPEVOLE CONTRO LA DEMAGOGIA POPULISTA

02 aprile 2016

Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Le dimissioni per “opportunità politica” di Federica Guidi e il conflitto di interessi che paiono celare, rischiano di diventare il terreno – improprio – su cui gli italiani decideranno per il Sì o per il No (o per l’astensione consapevole) al referendum del prossimo 17 aprile. E se così sarà – all’insegna di pentastellati, ambientalisti militanti, destrorsi alla Meloni e leghisti alla Salvini unitevi – avremo assistito all’ennesimo avvelenamento dell’opinione pubblica con dosi massicce di ideologismo anti-industriale e anti progresso tecnologico e scientifico, distribuite brandendo strumentalmente le giuste parole d’ordine della tutela dell’ambiente e della salvaguardia dei territori già fin troppo martoriati dall’incuria e dal malaffare. A tutto vantaggio – fin dalle prossime elezioni amministrative – delle forze populiste, già in crescita per il discredito, largamente meritato, delle forze di governo (quelle di maggioranza come quelle di opposizione).

Francamente, non c’è bisogno di indulgere alla dietrologia – e TerzaRepubblica mai lo fa – per sospettare che non sia casuale la tempistica con cui sono uscite adesso intercettazioni telefoniche relative al novembre 2014, e che d’ora in avanti la ricerca del quorum (perché di questo si tratta) da parte di chi ha indetto il referendum e voterà Sì (che è poi un no alle piattaforme che estraggono gas e petrolio entro le 12 miglia dalla costa) si baserà sullo “scandalo Guidi”. E non è una distorsione della realtà se si osserva come ci siano in Basilicata, regione che rappresenta il polo petrolifero più importante d’Europa (salvo le estrazioni in mare), magistrati anti-trivelle che conducono una battaglia non tanto contro le illegalità – ben venga la loro azione se ce ne sono – quanto contro le operazioni estrattive di idrocarburi in mare e contro l’uso di impianti di raffinazione, attività considerate in sé, per principio, illegali.

Sia chiaro, noi non intendiamo entrare nel merito di una vicenda, giudiziaria e non, in cui comunque come minimo c’è stata leggerezza. Non è questo il tema. La vera questione è: quel famoso emendamento entrato nella legge di Stabilità, che ha consentito l’investimento della Total – peraltro relativo a concessioni a terra e non in mare – è cosa opportuna per gli interessi generali del Paese e dei suoi cittadini, oppure no? La nostra è sì, ma ovviamente sono legittime entrambe le risposte. Quello che non si può fare è rispondere no per il solo fatto che c’è una inchiesta in corso e si sospettano conflitti d’interesse, non sappiamo ancora se penalmente o solo moralmente riprovevoli. Quanto al quesito referendario, poi, lo si è rappresentato in modo assolutamente scorretto, visto che il quesito non è “trivelle si-no”, considerato che già ci sono, ma se sia giusto o meno sfruttare i giacimenti già esistenti – ripetiamo: già in funzione – entro le 12 miglia dalle coste, fino al loro esaurimento. Ecco, se con la vittoria del Sì fosse ripristinato il vincolo temporale delle concessioni, i vantaggi ambientali sarebbero inesistenti, mentre i danni economici sarebbero certi, rappresentati dallo smantellamento – l’ennesimo – di un settore industriale vivo. Saremmo, in pratica, l’unico Paese che rinuncia a sfruttare le proprie risorse naturali. Infatti, se non sarà possibile proseguire le attività con le piattaforme esistenti, le compagnie potranno sempre costruirne di nuove poco oltre il limite dei 22 chilometri, con davvero poca differenza per l’ambiente. Perché il fabbisogno energetico deve comunque essere soddisfatto, ma sarebbe anche peggio dover aumentare la nostra già problematica dipendenza energetica dall’estero. E se oggi, con il prezzo del petrolio ai minimi, le importazioni pesano sul pil per il 3%, domani, con il greggio tornato a livelli fisiologici, si potrebbe arrivare al 6%, con nuovi rincari di benzina e bollette e un peggioramento della bilancia commerciale e dei pagamenti.

Inoltre, ci perderebbe lo Stato, poiché finirebbe all’estero una parte consistente degli 800 milioni di tasse e 400 di royalties, anche se Nomisma Energia quantifica il danno complessivo fino a 10 miliardi. Senza contare eventuali cause legali su ciascuno dei progetti bloccati, visto che saremmo al quarto cambio di rotta normativo in 5 anni. Sarebbero poi a rischio i 10 mila lavoratori impiegati direttamente e i 115 mila dell’indotto. Se anche gli impianti oggetto del referendum riguardano circa un terzo delle estrazioni di gas e un decimo di quelle petrolifere, la perdita sul fatturato complessivo del comparto, che ammonta a 4,5 miliardi, sarebbe disastrosa.

Anche sui temi ambientali occorre fare chiarezza. Il referendum riguarda solo 9 impianti a petrolio, mentre gli altri 39 sono a metano, il meno nocivo tra gli idrocarburi. Poi, visto che viviamo tutti su questa terra e che di gas abbiamo sempre bisogno, meglio estrarre a casa nostra, con maggiori controlli ambientali (Ispra, Ingv, Capitanerie, Iss, Usl, Asl e vari Ministeri) che in territori più poveri dove le normative sono meno stringenti. Troppo facile fare gli ambientalisti con l’ambiente degli altri. Troppo facile, in un paese dove non si riesce a costruire una qualsiasi opera infrastrutturale salvo poi lamentarne la mancanza quando si misurano i disagi, vellicare la “sindrome Nimby”.

In gioco non c’è la lotta all’inquinamento o la sconfitta di interessi oscuri tutelati in modo improprio, ma una misera strumentalizzazione politica, che rischia di costarci tantissimo. E le 9 regioni che hanno promosso il referendum sono animate dal desiderio di riacquistare quel peso che l’attuale ridefinizione degli equilibri tra Stato ed enti locali, in cui c’è la sacrosanta possibilità di restituire a livello centrale l’ultima parola in materia energetica, rischia di compromettere. Per tentare una mediazione, nell’ultima legge di Stabilità il governo ha ripristinato il divieto di nuove estrazioni entro le 12 miglia, smentendo quanto deciso nello Sblocca Italia. Ma non pare bastare. Adesso, il Pd di Renzi deve avere il coraggio di uscire allo scoperto, e spiegare agli italiani che quell’indefinito invito all’astensione finora maldestramente espresso, significa una sola cosa: per far prevalere il No è meglio far mancare il quorum. Altrimenti, l’invito ad andare al mare, per di più sommesso, altro non sarà che un nascondersi per coprire le proprie contraddizioni interne. E dopo le dimissioni del ministro Guidi, Renzi non se lo può più permettere.

Saremo capaci, noi italiani, di valutare la questione per quello che è, rispondendo razionalmente al quesito se le attuali piattaforme estrattive possono continuare “fino a vita utile del giacimento”, visto che non ci saranno più trivellazioni entro le 12 miglia e dunque è sciocco sprecare le risorse che abbiamo? Basta fare ricorso al buonsenso. E buon (non) voto.

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