ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Lo spread che non si vede

C’È UN “NUOVO SPREAD” INUTILE (E PERICOLOSO) FAR FINTA DI NON VEDERLO RENZI VADA IN TV A DIRE COME LO SI FRONTEGGIA

13 febbraio 2016

Nelle situazioni perigliose, la cosa che più conta per un uomo di governo è avere piena consapevolezza delle condizioni in cui ci si trova. Sia perché sa cosa fare, sia perché trasmette fiducia. Minimizzare o, peggio, tacere, è invece il comportamento peggiore che si possa tenere, perché trasmette un maledetto senso di incertezza. Si tratta di una regola semplice, ma fondamentale. Per questo non capiamo il silenzio di Matteo Renzi di fronte a quanto sta accadendo sui mercati finanziari. Anzi, non ce ne diamo pace, vista anche la sua proverbiale loquacità. E non ci si dica che il governo ha parlato con i provvedimenti, perché quello sulle Bcc – che tra l’altro ha contraddizioni evidenti – così come le misure per accelerare il recupero dei crediti e le norme che traducono l’accordo con Bruxelles sulla garanzia dello Stato sulle sofferenze (la presunta bad bank) sono cose utili ma non centrali in una situazione che si è fatta d’emergenza. “Da domani il sistema bancario sarà più solido dopo le scelte di questa sera”, ha detto Renzi dopo un consiglio dei ministri notturno, mostrandosi come quello che mentre la casa brucia pensa alle suppellettili. E che la casa bruci lo dice il bollettino di guerra dei mercati: la Borsa di Milano da inizio anno ha perso oltre un quarto del suo valore, cioè più di 150 miliardi di capitalizzazione. Di questi, una trentina riguardano le sole banche quotate, con perdite che, per esempio, hanno assurdamente costretto Montepaschi ad un valore di 1,3 miliardi dopo che negli ultimi due anni lo stesso mercato aveva sottoscritto 8 miliardi di aumenti di capitale. D’altra parte, il credit default swap (cds) sui bond (senior e subordinati) delle maggiori banche e assicurazioni europee e italiane, che misurano il rischio di fallimento, hanno fatto schizzare all’insù il valore delle ricoperture tra il 70% e l’85%. Anche perché ci sono anche altri istituti di credito, oltre a quelli italiani, che pagano dazio: la Deutsche Bank, per esempio, ha perso il 40% del suo valore dopo che è apparso chiaro non solo che con 1500 miliardi tra attivi esclusivamente finanziari e derivati è ormai più un hedge fund che una banca, ma anche che questo stato di cose dimostra quanto sia ancora molto parziale e assimetrica l’unione bancaria europea, dando così ulteriori munizioni alla speculazione.


In Europa e nel mondo c’è chi paragona questa situazione a quella del 2011, quando lo spread ed evidenti (quanto legittime) pressioni internazionali fecero saltare come un birillo Silvio Berlusconi. Ad altri ricorda invece quella del 2007, quando lo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime e dei valori immobiliari negli Stati Uniti fu la premessa per il divampare della grande crisi del 2008. Probabilmente non siamo né nell’una né nell’altra situazione. Oggettivamente, l’Italia non corre gli stessi rischi del drammatico autunno di cinque anni fa. Ma tutto questo produce comunque un profondo senso di smarrimento che pervade gli italiani, e in particolare la business community, nella quale prevale una sfiducia che induce a non investire e a non intraprendere nuove iniziative. Sgomento che se non trova risposte tanto immediate quanto convincenti, rischia di far apparire vero ciò che per ora è solo verosimile.


Gli sciocchi dicono: ma lo spread è ancora lontano dai 500-600 punti che avevano fatto temere il default del nostro debito sovrano. Certo, oggi lo strumento per misurare la febbre del malato Italia – che tale rimane – non è più il differenziale tra Btp e Bund tedeschi, ma, come abbiamo visto, gli indici di Borsa e in particolare dei titoli bancari. Tuttavia, il risultato rischia di essere lo stesso. Altri, si consolano osservando che la turbolenza dei mercati ha origini in alcuni macro fattori mondiali – dal crollo del petrolio alla frenata cinese, dalle crescenti tensioni siriane e libiche che coinvolgono anche Russia e Turchia all’ansia che prima o poi finisca la stagione delle politiche monetarie espansive, incapaci, almeno in Europa e Giappone, di battere la deflazione – che sono fuori dalla nostra portata. Cosa vera, anche se parziale, che ha dato spunto a Renzi e Padoan di dire che l’Italia “non è l’epicentro” del nuovo caos finanziario, affermazione vera se s’intende che non siamo gli unici nel mirino della speculazione, falsa se tende a sottacere che le banche italiane, indebolite da clamorosi errori politici di ieri (l’approvazione del bail-in senza battere ciglio né negoziare gradualità nella sua applicazione) e di oggi (il decreto salva-banche di novembre, con cui si forniscono al mercato parametri avvelenati per valutare i crediti deteriorati), sono più nel mirino di qualunque altro obiettivo. E lo continueranno ad essere, se ci si limita a difenderne l’onore con dichiarazioni salutiste (“il nostro sistema bancario è più sano di altri…”) ma poi non si rassicurano i correntisti, spingendoli a trasferire i conti correnti ai depositi postali.


In tutto questo manca, in tutta la nostra classe politica, la consapevolezza che l’Italia agli occhi dei mercati appare come un paese debilitato, che pur avendo contabilizzato una perdita di dieci punti di pil nella recessione infinita, negli ultimi cinque anni è stato capace di produrre solo una riforma strutturale (quella delle pensioni di fine 2011) e ha chiuso l’ultimo anno, pur molto favorevole per ragioni esogene, con meno di un punto di crescita (0,7% grezzo, che diventa 0,6% se si depura il dato dall’effetto dei giorni lavorativi, contro una stima del governo dello 0,9%, poi limata di un decimo di punto il 27 dicembre). Mercati a quali va indirizzato un messaggio che non può essere il generico e banalmente ottimistico “l’Italia è ripartita”, cui non solo non crede nessuno, ma che al contrario suona come irritante presa per i fondelli. Gli va spiegata una politica economica basata sugli investimenti e non sul sostegno drogato dei consumi, un piano di aggressione del debito pubblico, una riforma organica e radicale della pubblica amministrazione e della giustizia, una semplificazione istituzionale che, anziché riformare populisticamente il Senato, aggredisse il vero cancro generato dalla Seconda Repubblica, quell’eccesso di decentramento amministrativo sfacciatamente chiamato federalismo.
Soprattutto, va fatto intendere ai mercati che si è perfettamente consci che questa volta a combattere il “nuovo spread” non ci può più essere la Bce, che ha già regalato fin troppo tempo alla politica perché ridisegnare l’eurosistema a livello continentale e fare le riforme strutturali necessarie a livello nazionale, ma i governi. E che quello italiano ha le idee chiare su cosa c’è da fare, perché sa che la globalizzazione non perdona chi è meno competitivo e non fa le riforme, a cominciare da quelle che non piacciono ai populisti di governo e di opposizione.


E allora, caro Renzi, non indugiare oltre, metti via quell’aria piaciona inadatta alle circostanze e vai in televisione a parlare agli italiani con il linguaggio della cruda verità dicendo che la situazione è grave, ma che sai come riparare agli errori e ai ritardi accumulati in questi anni maledetti. Se sarai sincero ti crederanno, loro e anche i mercati. Altrimenti, lo diciamo con la morte nel cuore, il 2016 rischia di essere la tua e la nostra Caporetto.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.