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L'editoriale di TerzaRepubblica

Le guerre anti Renzi

LA GUERRA A RENZI C’È (INTERNA ED ESTERNA) E POTREBBE PORTARCI AD ELEZIONI ANTICIPATE

23 gennaio 2016

Preparatevi ad andare a votare. Dopo la fase più turbolenta dei quasi due anni di vita del governo Renzi – tra i litigi con Merkel e Juncker e l’attacco speculativo alle banche italiane, tra lo schiaffo alle feluche rappresentato dalla nomina di Calenda a Bruxelles e lo spettacolo poco edificante della vicenda Etruria – sembra di capire che, in un modo o nell’altro, prenda forma l’ipotesi di elezioni politiche anticipate. Che sono l’unico sbocco che il Quirinale sarebbe disposto a dare ad un’eventuale crisi di governo. Ma andiamo con ordine.

Con l’inizio dell’anno, per Renzi le cose si mettono male. Aveva chiuso il 2015 con un risultato sul fronte dell’economia – l’unico su cui si forma davvero l’opinione dei cittadini su chi li governa – piuttosto modesto, quantomeno se confrontato con le roboanti dichiarazione circa la ripresa e l’Italia che si è rimessa in moto. Inoltre, nonostante tutti gli stimoli esterni (liquidità, tassi, cambio, prezzi di petrolio e materie prime) crescentemente favorevoli, la curva di crescita del pil è andata rallentando di trimestre in trimestre, per cui quei 7 o 8 decimi di punto (vedremo quale sarà il risultato finale) di aumento della ricchezza nell’anno sono stati accumulati nella prima parte del 2015. Ergo, il 2016 si apre frenante, anziché in accelerazione. E se a ciò si aggiunge che nel frattempo la congiuntura mondiale e il quadro strategico internazionale sono ripiombati in un clima plumbeo, tanto da far parlare di ritorno al 2008, ecco che le previsioni di crescita di un punto e mezzo per il 2016 appaiono fin d’ora una pura astrazione. Questo Renzi lo sa, e capisce – visti anche i sondaggi che segnalano un calo dei consensi, per lui, per il governo e per il Pd – che il passare del tempo rischia di giocare a suo sfavore. Più si aggiungono inciampi inattesi, come la vicenda Etruria, che in un altro clima sarebbero passati quasi inosservati, e che ora invece pesano. È dunque per questo, per ragioni di politica interna, che Renzi decide di lanciare l’attacco all’Europa, declinata come Germania che vuole comandare e come commissione Ue che non sa far altro che obbedire. Lo scopo è duplice: distogliere l’attenzione dalle questioni più spinose, spostando il focus su “colpe altrui”, e pescare nel mare dei consensi che i populisti nostrani, leghisti in testa, riscuotono quando parlano male dell’Europa e dei tedeschi. Naturalmente Renzi ha argomentazioni valide, anche se le declina in modo un po’ becero. Ma, come spesso gli succede, esagera e non si cura di avere la copertura di solide alleanze. Così le reazioni di Merkel (sottotraccia) e Juncker (anche esplicite) non si fanno attendere. I mercati “leggono” la scena, e in un contesto già favorevole di suo (caso Cina, crollo del Brent, ecc.), imbastiscono una bella operazione ribassista che picchia sull’anello più debole della catena, le banche italiane. Costringendo l’unica voce autorevole (Draghi) e l’unica autorità federale (Bce) esistente in Europa, a intervenire per mettere fine (fino a quando?) al massacro. Si consideri che nel frattempo il premier è riuscito a litigare anche con Banca d’Italia, Consob, establishment Ue, corporazione degli ambasciatori italiani e (per solidarietà) stranieri e Chiesa (persino Bergoglio sulle unioni civili l’ha bacchettato).

A Strasburgo, Manfred Weber, conservatore tedesco della Csu ma soprattutto capogruppo del Ppe, indossa l’elmetto e spara: “Quello che sta facendo Renzi mette a repentaglio l’unità dell’Europa”. Hollande, che gli ha chiesto inascoltato di non aiutare sfacciatamente la Philip Morris (vedi decreto del 23 dicembre sul tabacco) e che si è legato al dito di non avere avuto solidarietà concreta dopo la reazione agli attentati di Parigi (qui Renzi ha fatto bene, ma paga dazio), non lo può vedere. Cameron ha in testa solo il referendum sulla permanenza UK in Europa, e come la Spagna che è ancora senza un governo e la Polonia nazionalista, non gli viene manco in mente di occuparsi di Roma. Il quadro è reso ancor più pesante dal fatto che in ballo ci sono questioni decisive per noi in Europa, dai via libera sul bilancio (in cui ci siamo presi delle libertà), sull’importantissima bad bank e sull’Ilva, alla spinosa problematica dei migranti e delle frontiere. Questioni sulle quali potrebbe scaricarsi l’ira dei (troppi) nemici e manifestarsi l’ignavia degli (tutti gli altri) indifferenti, tanto che non si può dare andreottianamente torto a coloro che in questi giorni hanno immaginato che la tempesta in corso stia a Renzi come lo spread sia stato a Berlusconi nell’autunno del 2011.

Anche qui, Renzi capisce perfettamente i pericoli che corre. Così come i suoi nemici non avvertono che il momento è propizio per colpire. Pochi l’hanno notato, tutti intenti com’erano a osservare che i voti di Verdini e Tosi sono stati decisivi per far passare la riforma costituzionale, ma nei giorni scorsi il governo è andato sotto al Senato su un voto segreto relativo ad una norma sugli incidenti stradali: siamo pronti a scommettere che i franchi tiratori – presumibilmente Pd – nemmeno conoscessero i contenuti di quella legge, e che dunque si trattasse di un vero e proprio avvertimento. Della serie: possiamo farti sgambetto quando vogliamo. Magari incoraggiati dalle molte e autorevoli personalità allocate in posti strategici – dalla Corte Costituzionale al Consiglio di Stato, dal Mef alla Farnesina – che non vedono l’ora di togliere di mezzo il presuntuoso rottamatore. “Arriverà presto il suo 25 luglio, e sarà la sicumera a seppellirlo”, chiosa il sempre lucido Rino Formica.

Ma chi si è portato avanti col lavoro e, magari dopo una telefonata a Francoforte, è salito al Colle per trasmettere il senso d’inquietudine dell’intera classe dirigente e per scrutare gli umori del Presidente, ha trovato un Mattarella fermo su un punto: se il governo Renzi dovesse cadere, quale che ne sia il modo, lui non s’inventerebbe un altro Mario Monti, si andrebbe dritti alle elezioni. Un’intenzione che conoscono tanto Renzi, che ne è contento, quanto i suoi nemici, che invece speravano in altri scenari. Ma che costringe l’uno e gli altri a farsi due conti. Infatti, Renzi è quello che avrebbe più interesse ad andare al più presto al voto: prima che le brutte carte dell’economia si girino e per evitare il logoramento che in Europa sono in grado di procurargli. Anzi, sarebbe utilissimo per lui far coincidere le amministrative di giugno, che si preannunciano infauste, con le politiche. Ma è il percorso che lui stesso aveva disegnato per la riforma costituzionale e la legge elettorale a fregarlo. Perché la (pessima) trasformazione del Senato in camera pseudo federale richiede una seconda lettura in entrambi i rami del Parlamento (ben che vada si finisce ad aprile-maggio) e poi ci sarebbe il referendum confermativo (previsto ad ottobre), in vigenza del quale non si possono sciogliere le camere. Inoltre quell’obbrobrio dell’Italicum diventa esecutivo a luglio.

Ora, pur avendo detto che lo avrebbe chiesto lui e avendo persino legato al suo esito la permanenza o meno in politica, Renzi potrebbe anche dimenticarsi del referendum (della serie, referendum #staisereno), ma in questo caso pur di scompaginargli i giochi sarebbero i suoi avversari a richiederlo e saremmo punto e a capo. Aggiungete i 45 giorni necessari per liquidare la legislatura, e vedrete che è tecnicamente impossibile andare al voto, con il nuovo Senato e la nuova legge elettorale, prima del febbraio-marzo 2017. Troppo tardi per Renzi per evitare di finire come Berlusconi, ma anche troppo tardi per i suoi nemici, che invece hanno tutto l’interesse ad andare alle elezioni con una modalità di conteggio dei voti che non sia quella iper-maggioritaria studiata da Renzi su misura per sé.

E allora? Allora, può darsi che questo doppio empasse blocchi tutto e si vada, come fino a ieri era previsto, alle amministrative a giugno, al referendum a ottobre e nei primi mesi dell’anno prossimo alle politiche. Così come, invece, è possibile che si acceleri tutto e si faccia la crisi di governo – trovare una corda su cui farlo inciampare è un gioco da ragazzi – prima del completamento dell’iter della riforma costituzionale. Lasciando il Senato così com’è e votando con il proporzionale riveniente dalla decisione con cui la Corte Suprema aveva cassato il “porcellum”. E, paradossalmente, potrebbero ritrovarsi a decidere di scegliere questa strada tanto Renzi – se giudica il logorio il peggiore dei mali – quanto coloro che lo vogliono morto. Allacciate le cinture

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