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L'editoriale di TerzaRepubblica

Codice rosso per l'Europa

CODICE ROSSO: SU ECONOMIA, SICUREZZA MILITARE E IMMIGRAZIONE, L’EUROPA RISCHIA DI IMPLODERE

05 dicembre 2015

Economia, sicurezza, immigrazione. Se l’Europa non si scuote dal torpore in cui è caduta, se non apre gli occhi al cospetto del più grande pericolo che sta correndo – il processo di disgregazione che la corrode come soggetto unitario, seppure in fase di lentissima costruzione – il rischio è non solo un ritorno alle sovranità nazionali, ma di subire un collasso dagli esiti tanto letali, l’implosione, quanto imprevedibili nelle sue conseguenze. Guardate che siamo di fronte ad una vera e propria emergenza, da “codice rosso”, aggravata dall’alto tasso di inconsapevolezza che contraddistingue tutte le classi dirigenti continentali. Prendiamo l’economia. Le ultime previsioni stimano una crescita dell’eurozona a fine anno dell’1,6%, pari a quella tedesca (+1,7%), ma con Francia (+1,2%) e Italia (+0,7%) decisamente sotto media. È poco, maledettamente poco se si considera che per spingere l’Europa fuori dalle secche della fase recessivo-stagnativa abbiamo usato il cannone della politica monetaria non diversamente (salvo che si è cominciato più tardi) dagli Stati Uniti, che ora viaggiano su livelli di sviluppo del 3%, hanno un tasso di disoccupazione della metà di quello europeo e non soffrono come noi di quella malattia (grave in tempi di debiti alti) che si chiama deflazione. Anzi, mentre gli americani si preparano se non ad invertire la rotta quantomeno a ridurre il livello della liquidità pompata dalla Federal Reserve, la reazione negativa dei mercati alle ultime scelte della Bce – espansive, ma ritenute insufficienti – ci dice come l’uso europeo del Quantitative Easing, pur essendo andato al di là di ogni aspettativa vista l’ostilità dei tedeschi, lasci l’amaro in bocca a chi sperava che avrebbe prodotto ben altro effetto benefico.


Sia chiaro, alla politica monetaria ultraespansiva di Draghi non c’era e non c’è alternativa e, anzi, senza di essa una parte dell’Europa sarebbe ancora in recessione e l’altra marcerebbe a “crescita zero” o poco più. Ha salvato l’eurozona dalla dissoluzione durante la crisi dei debiti sovrani, offrendo tempo e occasioni agli esecutivi nazionali per fare le riforme economiche e all’Europa nel suo complesso per realizzare una maggiore integrazione istituzionale. C’è però un aspetto in cui il “bazooka” di Draghi è risultato se non impotente, poco incisivo: non ha impresso velocità di cambiamento al capitalismo. Né avrebbe potuto farlo, senza i governi. Da sola, oltre a non poter far ripartire investimenti e consumi, nessuna politica monetaria può cambiare la struttura produttiva e il carattere del sistema produttivo. Ci vuole la politica economica e industriale. E non quelle nazionali – che in alcuni casi ci sono e in altri (Italia) no – ma una politica europea, unitaria e tesa a integrare i diversi capitalismi. Tutto questo è mancato e continua a mancare, e il vuoto si sta facendo gravido di conseguenze nefaste. Se poi si aggiunge che la poca politica europea che c’è, quella di bilancio, è sbagliata perché inutilmente integralista, la frittata è fatta. E oltretutto, come se già non bastasse, sono sbagliate pure le due ricette di chi si oppone all’austerità di marca tedesca. È una toppa ben peggio del buco quella nazionalistica delle destre populiste, dal lepenismo francese al leghismo in salsa Salvini italiano, che si basa su logiche autarchiche del tutto antistoriche. Ma è erronea anche la proposta delle sinistre che propugnano più spesa pubblica per sostenere la domanda, non avendo capito che il vero vulnus europeo (e italiano in particolare) è la qualità dell’offerta e il livello infimo degli investimenti pubblici e privati.


Si dirà: ma questo è male antico, che risale alla creazione dell’euro a Maastricht. Vero. Ma finora la mancata integrazione economica, pur con la moneta unica in tasca, è stata l’unica grande emergenza europea, capace di indurre parti crescenti di opinioni pubbliche continentali a coltivare sentimenti “anti Ue”. Ultimamente si era aggiunta anche quella derivante dal flusso ininterrotto e non governato di profughi provenienti dalle aree della povertà e delle guerre. La scandalosa solitudine in cui sono stati lasciati i paesi di frontiera, Italia in testa, l’incapacità di Bruxelles come delle singole cancellerie di immaginare soluzioni coordinate, il clamoroso inciampo in cui è incorsa la Merkel, fanno dell’immigrazione un problema esplosivo, anche perché s’intreccia in modo indissolubile con quello della scarsa crescita economica. Ora, poi, si è aggiunta anche la questione della sicurezza di fronte agli attacchi terroristici. Nelle scorse due settimane abbiamo qui sviluppato un ragionamento – né guerrafondaio, né pacifista – per spiegare come la reazione militare della Francia, che ha chiesto una solidarietà che, di fatto, non gli è stata concessa (se non dall’Inghilterra, che però non far parte dell’euroclub ed è più fuori che dentro l’Unione Europea), rischi di provocare nel Vecchio Continente una crisi politica di gravità inaudita. E – facciamo gli scongiuri, ma non chiudiamo gli occhi di fronte all’evidenza – l’acuirsi della frizione turco-russa potrebbe essere la miccia che fa saltare la santabarbara delle contraddizioni europee. Pronte ad esplodere su un terreno, quello della sicurezza dei cittadini di fronte al terrorismo ma anche quello delle scelte geo-politiche e geo-militari nel Mediterraneo, che da solo è più che sufficiente a mandare in fumo la costruzione europea, ma che a maggior ragione diventa deflagrante se s’innerva in un contesto già disintegrato dalla forza d’urto dei non risolti problemi economici e immigratori.


La nostra preoccupazione viene soprattutto dalla constatazione della pochezza delle classi dirigenti dei paesi europei, che, sommata alla storica debolezza e scarsa credibilità delle istituzioni comunitarie, spinge le opinioni pubbliche nazionali a chiedere ai singoli governi di dare risposte che non possono che essere sovranazionali. Ma la gravità della situazione è tale che è lecito sperare e credere anche a realisti incalliti come noi che qualcuno abbia un sussulto. Magari proprio da Renzi, che dopo aver subito le conseguenze della “non politica” sull’immigrazione, aver scelto di non stare con Hollande – qualcuno dice per pavidità, ma se anche fosse che importa, è comunque la scelta giusta – e aver constatato, dopo che l’Istat gli ha certificato la crescita del pil di soli sette decimi di punto, che la sua politica economica non funziona anche perché non ce n’è una europea cui agganciarsi, potrebbe riproporre il tema della “discontinuità”, altrimenti detta in modo improprio e fuorviante rottamazione, in chiave europea. Attendiamo speranzosi ma fortemente preoccupati.

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