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L'editoriale di TerzaRepubblica

Marchini tra i poli fallimentari

SIA BENEDETTO MARCHINI SE METTE IN CRISI SIGLE E POLI FALLIMENTARI (NON SOLO IN CAMPIDOGLIO)

07 novembre 2015

C’è un filo rosso che lega Renzi, Berlusconi, Grillo e Marchini. E non riguarda solo il Comune di Roma e non è soltanto quello che lo stesso candidato sindaco ha evidenziato in un paio di uscite sulla stampa in cui si è sottratto all’abbraccio (mortale) del leader di quel che rimane (poco) di Forza Italia e ha posto la sua eventuale corsa la Campidoglio in un contesto che ha definito “oltre la destra e la sinistra”, inevitabilmente alternativo alla deriva (in atto) verso una vittoria pentastellata per mancanza di avversari. No, in ballo c’è molto di più della pur importante partita Capitale. In gioco c’è la costruzione, o meno, del sistema politico nazionale del prossimo futuro. Cerchiamo di spiegarci. L’Italia ha superato la sventurata stagione del bipolarismo armato – berlusconiani contro anti-berlusconiani – e delle sue nefaste conseguenze prima con un governo di emergenza (Monti), poi con un esecutivo di larghe ma fragili intese (Letta) e infine con l’affermarsi di un leader accentratore (Renzi), capace di concentrare su di sé il potere politico fino a farsi perno (unico) del sistema. Così come era improprio chiamare Seconda Repubblica ciò che è venuto dopo la caduta della Prima per via di Tangentopoli, a maggior ragione lo sarebbe definire i tre governi succedutisi da novembre 2011 a oggi come espressione di una Terza Repubblica. Siamo solo, ahinoi, dentro una sempiterna transizione, e peraltro verso l’ignoto. L’unica cosa che è venuta affermandosi, in questa lunga fase di passaggio, è stato il populismo, che ha preso le sembianze del grillismo, ma anche la forma di un finto “civismo” per cui, dentro e fuori i partiti, ci si è affidati a figure della società civile, in particolare quelle più capaci di agitare i temi dell’anti-politica e assumere le sembianze dell’anti-casta.

 

Ora la soluzione del “caso Roma”, dopo la tardiva uscita di scena di Marino, incrocia un momento della politica nazionale in cui si sente il bisogno di chiudere la fase della Seconda Repubblica bis (il copyright è nostro) e di dare un assetto istituzionale più definito al Paese in modo che la frattura sempre più grande tra governanti e governati non diventi definitivamente insanabile. Renzi, da politico doc qual è, ha capito questa necessità e ha messo in campo tre diverse risposte: alcune riforme costituzionali, una nuova legge elettorale, la trasformazione del Pd come partito perno del sistema politico. Lo schema di ragionamento è corretto, il merito delle singole risposte molto meno. La riforma del Senato, così come realizzata, è sbagliata e inutile. Il premierato forte come presidenzialismo abortito e quindi privo dei necessari contrappesi, aiuta a superare l’indecisionismo italico solo nelle intenzioni e crea squilibri pericolosi. Il nuovo meccanismo di voto, se tale rimarrà, è pensato in funzione di un partito capace di superare il 40% dei consensi, e oggi nessuno, Pd compreso, si avvicina a quella soglia. Rimane la scelta di Renzi di avviare una trasformazione genetica del partito che guida. Qui non possiamo che essere d’accordo con lui: l’ancoraggio post-comunista e catto-comunista non solo è penalizzante dal punto di vista elettorale, e sempre più lo sarà, ma è una delle palle al piede che impedisce la modernizzazione del Paese. Il problema, però, è che l’intenzione buona non basta. Sia perché la grana del pragmatismo renziano è grossa, inadeguata alla complessità dei problemi che abbiamo di fronte. Sia perché l’uomo è solitario per indole, e dunque è circondato poco e male. E sia, infine, perché le vecchie culture politiche superate dalla storia non possono essere efficacemente superate solo con artifici mediatici, anche se basati su giuste critiche al “vecchio che avanza” (nel senso che è da buttar via). E nessuna cultura della modernità si vede all’orizzonte, nel Pd e nell’azione del governo.

Renzi, dunque, sbaglia nel dare una risposta individualista – tutto il potere a me che sono il decisionista che serve al Paese – al forte bisogno di stabilizzazione del sistema politico-istituzionale, anche perché rischia di non convincere un numero sufficiente di italiani, e non saranno le alchimie dei premi di maggioranza a colmare la lacuna, almeno sul piano sostanziale. Ma se lui sbaglia ma ci prova, gli altri sono “non pervenuti”. Grillo, che è tornato indietro rispetto all’unico tentativo sensato che può fare per dare una prospettiva di governo al suo sgangherato baraccone, e cioè costruire un partito vero con una leadership politica vera, gioca solo a massimizzare lo scontento, mettendosi in gara solo contro il partito dell’astensione. Berlusconi, che sarà “usato e gettato” da Salvini se si farà infinocchiare dalla prospettiva di ricostruire il centro-destra che fu, non si pone neppure il problema, preso com’è dalla doppia ossessione della sopravvivenza e della rivincita. Ma questo vuoto di concorrenza – lo abbiamo detto più volte e lo ribadiamo – non fa per nulla bene a Renzi, almeno fino a che la sua strategia di superamento del Pd attuale avrà maturato prospettive consistenti.

 

Ora, vi chiederete, che c’entra tutto questo con Marchini? C’entra eccome, perché il Campidoglio può diventare il laboratorio della Roma nazionale. Come ha fatto notare Stefano Folli, oggi Marchini è l’unico candidato già in campo e non solo incarna, ma lui stesso pone come condizione, il superamento delle vecchie sigle e degli ormai consunti schieramenti. Inoltre la fuoriuscita dagli schemi a favore di un candidato unitario della politica contro l’anti-politica è condizione insuperabile per tentare di battere, specie in caso di ballottaggio, il candidato grillino, quale che sia. Ma qui per sposarsi bisogna essere in tre: oltre a Marchini, anche Renzi e Berlusconi. Quest’ultimo ha già fatto vedere come di politica capisca poco, facendo il risentito perché dopo un incontro con lui, il candidato sindaco ha rifiutato il suo endorsement. Ma se il Cavaliere non accetta di essere uno dei supporter di Marchini, pretendendo il contrario, di quali alternative dispone? Spera di farcela con la Meloni? Renzi per ora tace, nella speranza che il periodo di commissariamento sia lungo a sufficienza da far dimenticare il suo appoggio oltre misura a Marino. Ma anche se l’operazione riuscisse, le condizioni disastrose in cui versa il Pd romano e la sicura scelta dell’ormai ex sindaco di farsi una lista sua raccogliendo tutto ciò che sta a sinistra di Renzi, sono ostacoli insormontabili ad un successo di candidato del Democratico, per quanto renziano stra-doc. Allora tanto all’uno quanto all’altro conviene appoggiare Marchini e la sua lista civica. Che poi questa sia una banale riedizione in salsa romana del patto del Nazareno troppo presto fatto morire, o invece diventi la base di una svolta nella politica anche nazionale, dipende da loro. E in particolare dall’attuale inquilino di palazzo Chigi, che non avendoci ancora spiegato cos’è il “partito della Nazione” – probabilmente perché non lo sa nemmeno lui – e avendo bisogno di dare continuità ad un’esperienza di governo finora troppo “renzicentrica” per poter durare a lungo, ha più del quasi ottantenne padrone di Forza Italia l’interesse a giocare a tutto campo.

 

E starà a Marchini essere capace di non cadere in tentazioni populiste e di fare in modo che la sua esperienza segni solo la fine dei vecchi e consunti partiti attuali, e non anche quella dei partiti tout court. Perché dei partiti democratici, non avendo fin qui inventato niente di meglio e avendo abbondantemente sperimentato che il leaderismo è una scorciatoia pericolosa e illusoria, abbiamo ancora un disperato bisogno.

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