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L'editoriale di TerzaRepubblica

Fesserie Capitali

NELLA CAPITALE È GARA A CHI FA PIÙ FESSERIE, MA CHI PAGA IL CONTO SONO I ROMANI E RENZI

01 novembre 2015

Chi è causa del suo mal…e noi vi avevamo avvertito. Sono molti quelli che devono piangere se stessi per l’imbarazzante e desolante vicenda di Roma Capitale. Prima di tutto gli italiani, o meglio quelli – purtroppo la maggioranza – che si sono compiaciuti che i partiti non fossero più lo strumento di selezione della classe dirigente, e si sono illusi che i sindaci provenienti dalla società civile e figli delle primarie fossero la panacea dei mali della politica in mano ai politicanti. Avete scrollato l’albero dell’antipolitica? Beh, adesso beccatevi il frutto avvelenato di nome Marino, che prima riesce nel difficile intento di risultare peggiore del peggiore dei sindaci di Roma, facendo pochissimo e quel poco male, poi si fa beccare con le mani nella marmellata di quattro note spese malgestite (vale la presunzione d’innocenza, naturalmente, ma non per chi restituendo i soldi ammette l’errore) e di viaggi per inseguire il Papa oltre oceano perché in Vaticano non è ricevuto; quindi si dimette con riserva già determinato – solo quei fessi del Pd non l’avevano capito – a tornare sui suoi passi non per rimanere sullo scranno più alto del Campidoglio, ma per cercare la verifica e farsi silurare platealmente, addossando la colpa al suo partito e creare i presupposti per un suo ritorno sulla scena, magari come leader degli antagonisti di Renzi, dentro e fuori il Pd, come fa presagire la definizione di se stesso di “lottatore sociale”. Marino non è il primo e non sarà l’ultimo di questi frutti avvelenati. Solo che quando noi lo andavamo dicendo, mettendo in guardia che  nelle città e nelle regioni l’antidoto ai Fiorito non potevano essere i De Magistris, i Crocetta o, appunto, i Marino, nessuno ci ascoltava. E adesso i danni – sulla pelle dei cittadini – sono fatti. E metterci rimedio non sarà per nulla facile, ora che i vari soggetti del decentramento sono il simbolo, causa e de effetto nello stesso tempo, del degrado delle amministrazioni pubbliche. Speriamo che la nomina a commissario di un galantuomo preparato ed efficiente come il prefetto Tronca, assicuri una transizione ordinata e che le elezioni si svolgano il prima possibile.

Ma pianga se stesso anche e soprattutto il Pd, quello romano e la segreteria nazionale. Credevano che il sindaco in bicicletta (ma solo per l’ultimo miglio) fosse un dilettante allo sbaraglio, usa e getta. E invece i dilettanti, anzi i pivelli, si sono dimostrati coloro che hanno gestito questa vicenda, trascinandola oltre ogni limite di sopportazione, non avendo inteso che ai romani erano bastate poche settimane per capire di aver fatto una castroneria a eleggerlo primo cittadino. Certo, la nomenklatura romana capitanata da Orfini, che non si era premurata di avere in mano le firme dei consiglieri in calce ad documento di sfiducia politica nei confronti del sindaco, ha dimostrato che non basta essere quarantenni per incarnare la vera discontinuità. Ma anche Renzi, che ha avuto il torto di sostenere Marino quando invece, mettendolo subito al tappeto, avrebbe potuto persino aumentare il suo bottino di consensi, non ha dato prova di tutta quella scaltrezza che gli viene accreditata quando nelle ultime battute della vicenda ha inserito il pilota automatico, pensando di potersene lavare le mani nonostante il ruolo – improprio per un presidente del Consiglio, glielo diciamo fin dal primo giorno – di segretario nazionale del partito. Ora lamenta che le primarie non siano lo strumento adatto a selezionare i quadri dirigenti e a trovare i candidati giusti, ma i congressi non si tengono e il vaglio dei nomi è affidato alla magistratura, passando da un’apocalisse giudiziaria all’altra. Un sistema che Renzi non solo non governa, ma che prima o poi rischia di rivoltarsi anche contro di lui e la sua squadra. Noi lo abbiamo scritto per tempo che occorre la “separazione delle carriere” (premier e segretario di partito) e che bisognava offrire la testa di Marino ai romani (vogliosissimi di tagliargliela, con buona pace dei quattro gatti accorsi ad inneggiarlo, ben prima che scoppiasse il “caso”) visto e considerato che non era stato certo Renzi a volerlo in Campidoglio. Ma il giovanotto, si sa, non ascolta nessuno, e quando ti azzardi non si dice a criticare ma a usare la ragion critica, ti bolla subito come un gufaccio disfattista. Peggio per lui.

Si dirà: ma Renzi il Pd lo vuole proprio smontare, per costruire il “partito della Nazione”. Probabilissimo. E non saremo certo noi a dolercene, anzi. I Democratici nono nati male e proseguiti peggio, e comunque non sono stati la risposta che il bipolarismo malato, prima, e la sua crisi, dopo, richiedevano. Ma il nuovo soggetto politico non può nascere solo sulle ceneri del Pd, non può essere espressione di una persona – ai partiti personali abbiamo già dato, e il prezzo è stato molto alto – così come la sua funzione o è quella di farsi protagonista della nascita della Terza Repubblica o non è. Il merito di aver fatto cadere molti tabù a Renzi gli va senz’altro riconosciuto, e non è merito di poco conto. Per questo gli si può anche perdonare l’errore di aver sparato nel mucchio, senza troppo distinguere i bersagli. Ma la fase destruens è durata fin troppo, ed è tempo che tanto il leader politico quanto il capo del governo si faccia misurare su quella costruens, sapendo che la severità delle valutazioni di chi non ha avuto preclusioni personali o ideologiche verso di lui non solo non può essere vissuta come lesa maestà, ma è benefico sale che insaporisce il suo piatto. Basta con gli slogan – che al momento buono non si traducono mai in tanti voti quanto la loro eco mediatica farebbe sperare – e sotto con un lavoro politico e programmatico di vera discontinuità e svolta. Altrimenti ci sarà sempre un pifferaio dell’anti-casta e dell’anti-politica capace di far leva sul giramento di scatole degli italiani.

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