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L'editoriale di TerzaRepubblica

5 Stelle che non crescono

LO STRANO GIOCO DELLA DITTA “GRILLO & CASALEGGIO” E L’IPOTESI DI MAIO CHE RISCHIA DI NAUFRAGARE

24 ottobre 2015

Ma che gioco fa la premiata ditta “Grillo & Casaleggio”? La domanda – con un alone d’inquietudine che la corrobora, inevitabile vista la totale opacità che circonda il “movimento” – sorge spontanea perché ogni volta che i due padroni della cosa pentastellare si trovano di fronte all’occasione di assestare un colpo mortale, e non a chiacchiere, ai loro “nemici”, eccoli trovare il modo di svicolare. Puntualmente. L’ultima di queste situazioni è il Campidoglio, pronto per esser consegnato ai grillini dopo il suicidio (plurimo) del Pd e di fronte ai tentennamenti del fu centro-destra. Hanno inveito contro Marino per due anni e mezzo – e come dar loro torto, pur se gli strali erano intrisi di un populismo insopportabile – e ora che la frittata è fatta, spariscono dalla scena, i candidati finora gettonati si defilano, e “i due” sembrano pensare che sarebbe troppo pericoloso andare ad amministrare la Capitale. Ora, che Roma sia una cloaca e che fare il Sindaco in Campidoglio sia molto più difficile che stare sulla tolda di Palazzo Chigi, è cosa sicura. Ma da qui a rinunciare, specie per un soggetto outsider come i cinquestelle, ce ne corre. “Ma rischiamo di bruciarci”, sembra che abbiano detto G&C. Vero. Anzi, quasi sicuro. Ma allora l’uno tornasse a fare il comico – in fondo, l’unica cosa che sa fare – e l’altro continuasse ad esercitare il mestiere del consulente-futurologo (con tutto il rispetto, l’impressione è che sappia fare solo predizioni a lunga gittata, quando saremo tutti morti e nessuno gli potrà contestare gli errori). Perché la politica o è rischio delle sfide impossibili, o non è.

Il problema è che l’atteggiamento assunto a Roma non sembra per nulla estemporaneo. Sarà un caso, ma ogni volta che sembra possibile o dare la zampata mortale a Renzi o far fare all’armata brancaleone grillina non si dice un salto di qualità – che è chieder troppo – ma almeno un piccolo passaggio di maturità, ecco che accade il contrario. C’era bisogno di perdere pezzi importanti della propria milizia parlamentare solo per la colpa di essere andati in tivù quando il movimento riteneva che non fosse opportuno? Alla luce della scelta opposta degli ultimi mesi – ora quella iniziale è stata addirittura stravolta – quell’epurazione appare frutto di pazzia. Una pazzia, però, che ha reso felice il governo e chi lo appoggia, dentro e fuori l’Italia, perché ha consentito di rafforzare una compagine parlamentare piuttosto sbrindellata.

Ma la cosa che appare più clamorosa è il passo indietro compiuto da G&C sul processo di cambiamento della governance del movimento, cui era collegato in parallelo il lancio della leadership, prima politica e poi chissà, di Luigi Di Maio. Il più presentabile – e non solo per ragioni estetiche – dei pentastellati, era stato esplicitamente indicato come il candidato premier del Movimento Cinque Stelle alle prossime elezioni, tanto che un acuto osservatore della politica nostrana come Antonio Polito si era spinto a dire che se davvero così fosse “ci troveremmo di fronte a un fatto nuovo della nostra vita democratica”, perché “nel movimento più carismatico di tutti, e nel pieno di un’ondata anti-politica senza paragoni in Europa, si affermerebbe un processo di selezione e di formazione della classe dirigente squisitamente politico, basato sulle competenze e sulla capacità di creare consenso, non sulla lotta tra correnti e i lunghi coltelli delle preferenze”. Noi, se i lettori più affezionati ricordano, avevamo colto per tempo il “fenomeno Di Maio”, ma ci eravamo riservati di osservare con più attenzione le mosse del giovane politico campano e soprattutto di valutare se l’autocritica di Grillo che ha accompagnato il lancio della nuova leadership fosse sincera. Non si trattava di cose da poco: archiviazione della “democrazia diretta” come un’utopia che era servita a lanciare il movimento ma che ora rischiava di impedirne la sua maturazione; nuovo rapporto tra base ed eletti; più pragmatismo e meno populismo; fare politica e non solo testimonianza; affermazione di un nuovo dna politico, in cui non ci sia più lo stare sempre e comunque all’opposizione come dogma. Chiaro che in un contesto del genere, non poteva che sbiadire il ruolo padronale di G&C e al suo posto prendere forma una leadership politica, nuova, giovane e certamente più democratica (o se volete, meno a-democratica di quella del duo fondatore). La cosa, nel vuoto pneumatico della nostra politica, sembrava interessante anche per chi, come noi, era lontano anni luce da quell’impasto di anti-politica becera che fino a quel momento era stato il movimento del “vaffa” e non era disposto a tramutare il disgusto verso un sistema politico fallimentare in pulsioni peroniste. Ma abbiamo fatto bene ad essere prudenti. Perché di quella svolta annunciata si sono perse le tracce. Tutte. Fino al punto da far nascere nel gruppo parlamentare (e nella base? ma esiste una base?) una reazione alla “presunta” nuova leadership di Di Maio. Dunque, addio alla transizione da movimento folcloristico e gravido di pulsioni anti-parlamentari, a una forza politica certamente originale e anomala, ma pienamente inserita nel gioco della democrazia rappresentativa? A quanto pare sì. A meno che Di Maio capisca di essere stato usato, smetta i panni del bravo ragazzo in giacca e cravatta e si lanci in un’iniziativa politica che spiazzi i giochini della premiata ditta G&C. In fondo, per lui sarebbe l’unico vero modo per dimostrare che le speranze che lo riguardano sono ben riposte. E per noi, che abbiamo a cuore le sorti del Paese e sappiamo quanto faccia male non disporre di valide alternative, sarebbe confortante sapere che un quarto, o forse più, dei consensi degli italiani che ancora votano non sono del tutto buttati via.

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