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L'editoriale di TerzaRepubblica

Renzi e la sfida Capitale

SU ROMA E IL DOPO MARINO RENZI RISCHIA SE NON SAPRÀ COSTRUIRE UN PARTITO E UNA CLASSE DIRIGENTE COMPLETAMENTE NUOVI

10 ottobre 2015

Meglio tardi che mai. Adesso che lo psicodramma di Ignazio Marino è finalmente terminato nell’unico modo possibile, è venuto il momento di fare alcune valutazioni che vadano al di là della politica capitolina e della figura del Sindaco uscente (nella speranza che rimanga tale, visti i 20 giorni di possibile ripensamento…). Intanto, di tutta questa (brutta) storia la cosa che rimane incomprensibile è l’atteggiamento tenuto da Renzi. Marino non aveva e non ha alcun legame, né personale né di storia politica, con il presidente del Consiglio. Renzi non è tipo da farsi problema neppure di fronte al suo migliore amico. Dunque, perché prolungare per tutto questo tempo l’agonia di una sindacatura che aveva fin dall’inizio tutti i virus che l’hanno portata a questo epilogo, e che ci aveva messo pochi mesi per manifestarli pubblicamente? Perché, dopo un’iniziale presa di distanza, dare a lui e alle sue varie e scombinate giunte, una copertura che finiva col trasferire sull’inquilino di Palazzo Chigi le colpe di quello del Campidoglio? Possibile che il macchiavellico fiorentino in questa vicenda abbia assunto le sembianze dell’ingenuo? Siccome la domanda non è di oggi, in questi mesi ci siamo sentiti rispondere che la scelta di Renzi era ben ponderata, perché elezioni anticipate avrebbero portato al Comune di Roma un Sindaco pentastellato. Ora che questo potesse accadere, è vero, ma a maggiore ragione lo è ancora di più oggi, dopo lo spettacolo offerto non solo da Marino – e non parliamo delle note spese o delle (inusuali e per molti versi improvvide) dichiarazioni del Papa, ma dello spaventoso degrado in cui è stata lasciata precipitare la Capitale – ma anche dal Pd romano. E sarebbe accaduto, con effetti via via crescenti (in negativo) anche se a Marino fosse riuscito l’impossibile, e cioè arrivare alla fine del mandato. Come poteva pensare, Renzi, di non pagare un prezzo – che si profila molto alto – allo sfacelo romano, o comunque di poterlo pagare in misura inversamente proporzionale al prosieguo della sindacatura?

 

Dato che una cosa si può escludere, e cioè che a Renzi difetti l’astuzia, una spiegazione ci deve pur essere. Noi riteniamo di poterla trovare se si esce dal caso romano e si esamina la sua strategia più generale rispetto al Pd. Come TerzaRepubblica ha già avuto modo di notare, il segretario dei Democratici appare fermamente intenzionato a smontare pezzo a pezzo il partito che ha ereditato, per trasformarlo in qualcosa di profondamente diverso. Si è detto del “partito della Nazione”, qualcuno parla di Pdr (nel senso di forza politica personale), altri evocano – chi con preoccupazione, chi con nostalgico desiderio – la rinascita della Democrazia Cristiana. In tutti i casi non più “la ditta” post-comunista, né l’Ulivo come aggregazione di forze eterogenee in cui la sinistra cattolica legittimava quella comunista come forza di governo. E comunque non più un partito di sinistra, ma genericamente riformista. Dunque, l’obiettivo del segretario del Pd era, ed è, quello di lasciar letteralmente disintegrare un pezzo tra i meno controllati e controllabili del suo partito, facilitando così il più generale processo di radicale trasformazione.

 

Si potrà obiettare: ma a furia di perdere pezzi o lasciare che esplodano, i voti poi come li prende? Beh, qui scatta un’altra degli elementi caratteriali che compongono il puzzle Renzi: la presunzione. Forte di una capacità comunicativa che è pari alla sua spregiudicatezza politica, e che considera – a torto e a ragione – l’unica fonte della sua legittimazione, il presidente del Consiglio immagina di potersela sbrigare da solo con gli italiani. Anzi, pensa: tanto più sarò privo di compagnie (specie di vecchio stampo) e dimostrerò una forte tendenza all’accentramento dei poteri e al decisionismo, tanto maggiore sarà il consenso che riuscirò, trasversalmente, ad attrarre. Ora, c’è del fondamento in questa presunzione. Sia perché Renzi ha già dimostrato di essere bravo nel vendersi come “l’uomo, per di più giovane, che ci vuole”. Sia perché è vero che gli italiani è questo che amano sentirsi raccontare.

 

Quindi sbagliano coloro che leggono le dimissioni di Marino come un segno di debolezza, o addirittura come una sconfitta, di Renzi? Fino ad un certo punto. Perché occorre aggiungere altre tre considerazioni. La prima: non sarà facile nemmeno per lui allontanare da sé l’ombra lunga e sinistra (aggettivo) del clamoroso fallimento di Marino e del Pd romano, e se a salire sullo scranno più alto del Campidoglio sarà un esponente 5stelle saranno dolori anche nello scenario nazionale. La seconda: un conto è affermare una leadership e un altro, tanto più se questa è a base mediatica, pensare di poter fare a meno di una classe dirigente e quindi di un partito strutturato (che è l’unico strumento, per quanto imperfetto, capace di selezionarla). Anche perché nel momento in cui si rinuncia – come ha fatto Renzi, per fortuna – al vecchio collante ideologico per sostituirlo con il pragmatismo, quest’ultimo non può essere spicciolo e costruito nel laboratorio della comunicazione. Come rischia di essere quello di Renzi. Terza considerazione: un partito nuovo – che è cosa profondamente diversa dal fare un nuovo partito – non può che avere la capacità di superare la vecchia dicotomia destra-sinistra. Come pensa, Renzi, di dimostrare questa attitudine a Roma, nell’individuare il nuovo sindaco? Qualcuno, intelligentemente, gli sta suggerendo di indirizzarsi verso un candidato bipartisan. Forse, vista la situazione e visti i suoi obiettivi più generali, deve essere capace di fare qualcosa di più: individuare un soggetto politico cittadino, oltre che un leader, fuori dagli attuali schieramenti, che rappresenti il nucleo del futuro partito riformista, post Pd ma anche post Forza Italia e forze centriste. E altrettanto dovrà essere capace di fare a Milano, in modo che l’operazione sbocci in modo più diffuso e virtuoso possibile.

 

In conclusione, bene passare nel tritacarne il Pd, partito nato vecchio per essere nuovo e troppo conservatore per essere moderno. Nessuno, tranne la truppa sempre più esigua di nostalgici, lo rimpiangerà quando sarà anche formalmente defunto. Ma al suo posto non ci può essere solo Renzi. La storia di Forza Italia è lì ad insegnare che senza personalità forti ed autonome e senza una cultura politica strutturata, non si combina niente di buono quando si è al governo e si sparisce quando si va all’opposizione. Chiunque sia il leader. Il riformismo è sì pragmatismo, ma con forti ancoraggi ad una visione complessiva e strategica della società che non può che discendere da un solido impianto culturale.

Renzi, finora, è stato abilissimo nella parte destruens, molto meno in quella costruens. Roma sarà un banco di prova decisivo per il suo futuro.

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