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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il vertice (decisivo) sui cambiamenti climatici

OCCHIO AL VERTICE DI PARIGI SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI È MOLTO PIÙ DECISIVO DELLE PENOSE SCHERMAGLIE SUL SENATO

03 ottobre 2015

In attesa che la pantomima parlamentare sulla riforma costituzionale abbia finalmente termine per lasciare spazio alla legge di Stabilità, alziamo lo sguardo e cerchiamo di capire cosa capita nella dimensione geo-politica e geo-economica mondiale, su quei fronti che sono destinati a lasciare il segno sui nostri destini senza che neppure ce ne accorgiamo, impegnati come siamo a guardarci la punta delle scarpe. Per esempio, è fuori dal dibattito politico e del faro dell’attenzione mediatica nostrana il vertice mondiale in sede Onu, denominato “Cop 21”, che fra poco si terrà a Parigi sul cambiamento climatico in atto e sulle sue conseguenze sull’economia mondiale e persino sulla stabilità finanziaria dei mercati internazionali. È la nuova Kyoto, e vi possiamo assicurare che – per quanto ne abbiamo capito – ne usciranno sconvolti tanto gli equilibri politici mondiali quanto i paradigmi del capitalismo “3.0”. Chi ci segue da tempo sa che in questo spazio non abbiamo mai ceduto al fascino dell’allarmismo ecologista. Anzi, sa che militiamo senza indugio nel (minoritario) partito del “sì”, per quanto temperato da un pragmatico “ma” (sì alle grandi opere, agli inceneritori dei rifiuti, alle trivellazioni petrolifere, ecc., purché fatte nel rispetto di tutte le norme). Ma questo non significa che non siamo consapevoli dei costi ambientali dello sviluppo, e in particolare di quello figlio della globalizzazione, che (per fortuna) ha allargato enormemente il fronte dei paesi industrializzati. E per questo non siamo insensibili all’idea che si debba provare a mettere dei vincoli, a patto che non nascano da preclusioni ideologiche. D’altra parte, quando si sente il Governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney – non un facinoroso ultrà ecologista – usare parole terribili a proposito dei mutamenti in atto, definendo catastrofiche le conseguenze dello scongelamento dei ghiacciai, della desertificazione di interi territori, dell’innalzamento dei livelli del mare, e quando si vede che queste preoccupazioni sono confermate da un consensus generale dei grandi esperti mondiali, allora si capisce che la posta in gioco è altissima e la partita terribilmente seria. Anche perché le obiezioni che verranno alle più rigide posizioni europee – il Vecchio Continente, peraltro, contribuisce in misura relativamente marginale alle emissioni di CO2 al livello mondiale – da parte dei paesi cosiddetti emergenti, Cina e India in primis, non saranno per nulla banali. Chi oggi contribuisce al pil mondiale in modo decisivo dirà a noi ricchi di vecchia data: “voi avete inquinato e cementificato nella fase della vostra industrializzazione senza che nessuno vi dicesse niente, ora che tocca a noi ci volete mettere la mordacchia”. Cosa sacrosantemente vera. Solo che sul pianeta malato ci sono anche loro, e un punto di compromesso tra le diverse esigenze andrà trovato. In ballo ci sono le scelte che l’industria mondiale, in particolare quella estrattiva e dei trasporti che poggia il proprio modello imprenditoriale sullo sfruttamento degli idrocarburi, deve fare per assumere una posizione più responsabile. Cioè per conseguire gli obiettivi del contenimento dell’aumento della temperatura entro due gradi centigradi, della riduzione delle missioni di anidride carbonica, e della tutela del patrimonio residuo di atmosfera disponibile. Ma come, concretamente, bilanciare la saturazione dell’atmosfera che sta oggi provocando un sistema industriale e dei trasporti che brucia carbon fossile ed idrocarburi, considerato che inquinare costa troppo poco e non c’è un disincentivo produttivo e tecnologico sufficiente?

È evidente che la prima cosa da fare è indurre tutte le multinazionali a rendere insopportabilmente esoso l’uso del carbone. Sappiamo che questo si scontra con grandi interessi, anche europei (la Germania continua ad essere grande consumatrice di carbone, e in Europa è addirittura prevista la costruzione di un centinaio di centrali elettriche alimentate a carbone, per la precisione 110 nuovi impianti, di cui 75 nella sola Turchia). Ma per cambiare il mix energetico mondiale non basta far scendere il carbone. Occorre far salire la produzione di energie alternative, sottraendole alla speculazione (come quella che è stata permessa in Italia nella fase primordiale del fotovoltaico) e dall’eccesso di dipendenza dalle sovvenzioni. E occorre massimizzare l’uso del gas, anche attraverso un completo ridisegno delle reti transnazionali di infrastrutture per il suo trasporto. La questione, quindi, è squisitamente geopolitica: l’Europa deve strutturare la propria rete di trasporto del gas in maniera tale da consentire autosufficienza energetica ed utilizzo del gas proveniente dalla Russia ma anche, e soprattutto, dall’Africa. In questo contesto il ruolo dell’Italia è strategico. Sempre che se ne abbia piena coscienza. Il peso dell’Eni è fondamentale, perché può essere determinante nel creare un hub del gas nel Mediterraneo a servizio della Francia, della Germania e dei paesi dell’Est. Ma occorre avere la forza, la determinazione e la credibilità che servono in situazioni come queste, dove nessuno ti regala niente, anzi.

Perché non proviamo per un momento a smettere di razzolare nel pollaio inquinato e inquinante (tanto per stare in tema) della politica ridotta a scontro di penose mediocrità, e non ci dedichiamo a capire che su questo come su altri temi strategici di portata planetaria passa, volenti o nolenti, il nostro futuro?

 

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