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L'editoriale di TerzaRepubblica

Renzi e la battaglia del Senato

BERLUSCONI LO SOSTIENE, MA RENZI, SE ANCHE VINCE CONTRO GRASSO E BERSANI, DEVE CAMBIARE

di Enrico Cisnetto - 19 settembre 2015

Comunque vada sarà un (in)successo. Non abbiamo le competenze (né ci teniamo ad averle) per predire come finirà questo straziante tira-e-molla sulla riforma del Senato, e di conseguenza divinare sull’eventuale caduta o meno del Governo. Ma conosciamo abbastanza bene la politica italiana per dire fin d’ora che qualunque sia l’effettivo risultato di questa partita, che al totocalcio sarebbe da 1-X-2, per il Paese saranno comunque guai.

Tutti oggi sfogliano la margherita: Renzi e la minoranza del Pd troveranno un accordo? La riunione della direzione dei Democratici sancirà la rottura? E Grasso, terrà duro sulla sua intenzione di consentire la riapertura della discussione sull’articolo 2 della riforma, con ciò rendendo possibile che su qualche emendamento il Governo vada sotto? E qual è la posizione della sfinge Mattarella? A noi pare che la lettura più semplice della situazione sia anche la più vicina alla verità: è logico pensare che il presidente del Senato – che notoriamente non è, per carattere, un cuor di leone – si muova in sintonia con il presidente della Repubblica. Ergo, se Grasso sa (o percepisce) che Mattarella ha intenzione, in caso di inciampo del Governo e conseguenti dimissioni di Renzi, di non sciogliere le Camere e provare a fare un altro esecutivo, allora è probabile che dia via libera agli emendamenti ed è altrettanto probabile che si formi una maggioranza anti-Renzi con tutto quello che ne deriva; altrimenti, se da Mattarella arrivano segnali opposti, o anche solo non ne arriva alcuno, non se ne fa niente e Renzi prosegue il suo cammino.

 

A quanto i bookmaker diano l’ipotesi che il tandem Mattarella-Grasso abbia l’intenzione di lasciare che Renzi vada a sbattere e perda palazzo Chigi, magari per individuare proprio nell’ex magistrato siciliano la “soluzione istituzionale” della crisi, non sappiamo. Ma poco importa. Perché qui scatta la nostra vera preoccupazione: nell’uno come nell’altro caso siamo fritti. Infatti, se Renzi cadesse, ci saremo risparmiati una pessima riforma sul Senato e un’insufficiente intervento risanatore dei guai del titolo V della Costituzione, ma ci troveremo nel pieno di un caos politico perché quella maggioranza che lo avrà buttato giù non è tale da rendere possibile un nuovo governo. Sia chiaro, il fatto che nessuna parte politica (a parte i 5stelle) abbia voglia di andare alle elezioni rende probabile la riuscita di un tentativo che Mattarella imbastisse, ma di qui a dire che si tratterebbe di una soluzione capace di reggere e servire a fare bene ciò che il giovin fiorentino o ha fatto male o non ha fatto, ce ne passa. Al contrario, se Renzi vincesse la partita, ci saremo risparmiati una brutta crisi di governo, ma avremo due conseguenze ugualmente negative. La prima è appunto una riforma che, come ha ben spiegato Michele Ainis riprendendo molte valutazioni fatte da TerzaRepubblica, avrebbe dovuto essere costruita su ben altre basi e servire a smontare in modo radicale il pletorico sistema del decentramento amministrativo che in questi anni abbiamo chiamato impropriamente federalismo, produttore di costi enormi, dispensatore di diritti di veto, generatore di contenzioso tra centro e periferia, moltiplicatore di perniciosa burocrazia. La seconda conseguenza negativa è tutta politica: per resistere Renzi avrà avuto bisogno dei voti decisivi dei transfughi da Forza Italia e di un po’ di berlusconiani assenti o distratti al momento del voto, e questo non potrà non pesare sul prosieguo della legislatura.

 

Chi ci legge con assiduità sa che il nostro non è certo uno scandalizzarsi. Anzi, abbiamo sempre sostenuto, dopo la sciagurata decisione di Berlusconi di uscire dalle “larghe intese”, che il successivo “patto del Nazareno” uscisse dalle tenebre in cui i contraenti l’avevano ficcato – legittimando chi lo bollava come trama di potere – e diventasse patto politico alla luce del sole. Dunque, il problema non starebbe nel fatto che il Governo si avvale dei voti berlusconiani (e tali sono definibili anche quelli del gruppetto di Verdini, visto che lui con il Cavaliere non ha mai veramente rotto…), ma che tutto questo avviene in modo poco limpido e a costo di una lacerazione non componibile dentro il partito di cui il presidente del Consiglio è segretario. Tanto più visto che si tratta di una riforma di natura costituzionale di primaria importanza.

 

Ma è inutile biasimare Berlusconi, perché è da novembre 2011, da quando cioè è out, che ha riprogrammato i suoi obiettivi: sa che per età e condizione oggettiva non potrà più tornare a palazzo Chigi né recitare un ruolo politico, e allora sceglie di usare la sua forza parlamentare – meglio ancora se doppiamente dislocata, Forza Italia all’opposizione e un pezzo dei suoi in maggioranza o i prossimità di essa – per negoziare vantaggi per sé e il suo sistema di interessi economici. Sì, si è incavolato con Renzi per la vicenda Mattarella – sbagliando di grosso e mostrando di non avere più la lucidità di un tempo – ma alla fine sa che comunque è meglio trattare con lui, e magari concedergli dei via libera su questioni che premono al premier (per esempio, se il candidato di Berlusconi al Comune di Milano alla fine fosse una figura minore e quindi perdente, capiremo in cosa consistono queste “concessioni”), piuttosto che inseguire per davvero un’intesa con quel balordo di Salvini.

 

No, qui il tema è Renzi. Francamente, fatichiamo a capirne la strategia. Forse perché non siamo all’altezza della luciferina finezza della sua tattica, ma ci permettiamo di dubitare che queste prove di forza siano gli strumenti giusti sia per risolvere i veri problemi del Paese, sia per consolidare il consenso degli italiani. Di cui a questo punto ha bisogno in dosi massicce, perché per come si sono messe le cose e se passa il suo Italicum, o supera in volata il 40% pur liberandosi della sinistra interna (o magari lo supera proprio per questo) e vince da solo, o se ha bisogno di alleati, farà fatica a tornare a palazzo Chigi. Speriamo per lui ma soprattutto per il Paese, di avere torto.

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