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L'editoriale di TerzaRepubblica

Regionali: 41% o nulla

REGIONALI: L’UNICO RISULTATO CHE CONTA È SAPERE SE RENZI CONFERMA IL 41% O CI VA DISTANTE

30 maggio 2015

Patti chiari. Stabiliamo prima delle regionali di domani quali saranno le chiavi di lettura dei risultati elettorali, in modo da evitare il solito indecoroso tira e molla di valutazioni più o meno artificiose e strampalate. Per parte nostra la discriminante fondamentale riguarda la distinzione che occorre fare tra la lettura locale e quella nazionale del voto. Per quella regionale, sarà importante la verifica del numero dei governatori che ciascun schieramento avrà conquistato. Ecco perché il vortice dei pronostici, da 7-0 a 4-3, che in questi giorni impazza sui media, non ha senso alcuno. Renzi il toto governatori l’ha usato strumentalmente, prima dicendo che avrebbe fatto strike per dare il senso che la partita era vinta e che l’unico voto utile era quello al Pd, poi dicendo a sorpresa che se anche avesse preso quattro regioni su sette (e dunque perdendone una, visto che solo Veneto e Campania erano di centro-destra, mentre Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Puglia erano di centro-sinistra) si sarebbe sentito vincitore. Spinto, forse, sia dalla prudenza cui lo inducono alcuni sondaggi, sia dalla furbizia di far credere la possibilità di un risultato scarso per poi, di fronte ad un 5-2 o un 6-1, annunciare di aver stravinto. In questo quadro, anche la tartufesca questione degli “impresentabili” assume una valenza esclusivamente locale.

 

Per un semplice motivo: la palla è ora agli elettori, unici e insindacabili giudici. Siccome esiste una legge che stabilisce sia chi si può candidare e chi no, sia quando gli eletti devono decadere e quando no, la lista dei 17 “impresentabili” stilata dalla Commissione anti-mafia presieduta da Rosy Bindi francamente non ha ragion d’essere. Naturalmente, nessuno può impedire che lotta e propaganda si spingano fino al punto di sputtanare i candidati, ma appunto saranno poi i cittadini che giudicheranno, tanto gli sputtanati (o presunti tali) quanto gli sputtananti. E proprio per questo, è bene che la cosa inizi e finisca nell’ambito territoriale. Certo, la questione De Luca per il Pd è difficile da confinare nell’ambito regionale, ma per l’appunto è cosa interna ai Democratici. E la tendenza, ormai generale, di far prevalere le ragioni dell’anti-politica su quelle del garantismo, è certamente una questione politica nazionale, ma ben più vasto di questo dei presunti “impresentabili” è il terreno su cui si applica e andrebbe contrastata.

 

Insomma, non è sui nomi dei candidati e degli eletti, né sul numero dei governatorati regionali conquistati o meno che lunedì sera dovremo tirare le somme del voto. E, allora, quali sono le chiavi di lettura nazionali che andranno usate? Di sicuro due: il numero complessivo dei votanti, per misurare la tendenza dell’astensione, e la percentuale complessiva dei voti di ciascun partito. Parliamoci chiaro: Renzi, dopo essere arrivato a palazzo Chigi senza essere passato per elezioni – un’accusa che noi di TerzaRepubblica non gli abbiamo mai rivolto, ben sapendo che solo una (deplorevole) forzatura della Costituzione ha ingenerato negli italiani l’idea (infondata) che con il loro voto nominassero un premier – ha usato il risultato delle elezioni europee dell’anno scorso come strumento di legittimazione politica del suo ruolo di presidente del Consiglio e di capo del partito. Quel 40,8% conseguito dal Pd, per comodità arrotondato a 41%, è dunque diventato il metro per misurare il consenso di Renzi. Non solo: è su quella soglia che è stata definita la metrica dell’Italicum, nella convinzione da parte di Renzi di poter anche fare a meno del ballottaggio, superando la soglia al primo turno e prendendosi il premio di maggioranza sena colpo ferire. Ora, delle due l’una: o il Pd – nonostante i mal di pancia interni arrivati fino al punto di far immaginare una fuoriuscita a sinistra di un qualche rilievo – conferma quel risultato e con esso l’effetto Renzi, e allora le dinamiche politiche subiranno un’accelerazione in chiave di rafforzamento sia del governo sia della segreteria del Pd a scapito degli scontenti, oppure si attesta su valori distanti dal famoso 41%, e allora i giochi politici saranno di ben altra natura. Naturalmente non sappiamo se Renzi perderà poco o nulla a sinistra e nello stesso tempo confermerà o addirittura incrementerà il flusso di voto moderati che intercettò alle europee, o viceversa, se perderà in modo significativo i voti di quella che Bersani chiama “la ditta” e nello stesso tempo non sarà in grado di compensarli con i voti moderati, che magari per le pensioni, la scuola o semplicemente per quel suo modo un po’ guascone di porsi, sono meno propensi rispetto all’inizio a dar retta al “rottamatore”. La sensazione, ad esser sinceri, è che qualche pericolo lo corra – e l’atteggiamento degli ultimi giorni autorizza a pensare che ne sia consapevole – ma è altrettanto vero che alla fine Renzi gode di due vantaggi che potrebbero, nelle urne, fare la differenza. Il primo è la mancanza di avversari – salvo quelli interni – un vuoto pneumatico che Berlusconi in questi ultimi giorni ha tentato disperatamente di riempire resuscitando televisivamente, ma che rende in libera uscita i voti di centro-destra (salvo verificare se andranno a Renzi oppure se opteranno per l’astensione, o se invece saranno Grillo e Salvini a contenderseli). Il secondo vantaggio è dato dal fatto di essere l’unico dal tratto riformista in un mare di qualunquismo populista. Certo, noi lo abbiamo più volte rimproverato di aver perso per strada “l’obiettivo riformista” per aver voluto (dovuto) usare con qualche eccesso “il mezzo populista”, ma resta il fatto che per un elettore a vocazione maggioritaria che rifugge le forzature grilline e leghiste ed è deluso dell’esperienza centrista di Monti, Renzi resti di fatto l’unico approdo.

Ma ora bando alle congetture, ne riparliamo dopo il voto, a bocce ferme. Avendovi già detto con quali strumenti misureremo i risultati. Buon voto (a chi tocca).

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