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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il ritorno di Berlusconi

LE MOSSE DI BERLUSCONI SONO FUORI TEMPO MASSIMO MA, RESTA VIVO IL BERLUSCONISMO (CIOÈ LA SECONDA REPUBBLICA)

23 maggio 2015

Non abbiamo mai avuto simpatia, né politica né umana, per Umberto Bossi, e consideriamo la sua Lega e il localismo becero che ci ha imposto per due decenni, chiamandolo impropriamente federalismo, uno dei frutti più avvelenati, dei tanti, della Seconda Repubblica. Figuriamoci poi la versione senile e un po’ patetica del vecchio Senatur. Tutto ciò non toglie, però, che questa volta si debba spendere una parola di compiacimento per i giudizi, tanto efficaci quanto taglienti, che Bossi in un’intervista ha espresso su Silvio Berlusconi e la fine di Forza Italia. Riassumibili, certo, come ha fatto Repubblica, nel sintetico “Silvio è un pirla”, ma che nella consueta volgarità di linguaggio danno il senso del passaggio verso il nulla a cui stiamo assistendo. Fateci caso: su TerzaRepubblica erano mesi che del Cavaliere (vabbè, ex, ma che importa) e del centro-destra non si parlava. E non era, come qualcuno avrà sicuramente pensato, una scelta snobistica. No, semplicemente è perché non ci si occupa di cose marginali, che poco, o più probabilmente nulla, incidono sullo scenario politico. Ci direte: ma perché, forse adesso ciò che succede (ma soprattutto, non succede) a destra è di colpo diventato interessante? No e sì. No perché la marginalità rimane tale anche alla vigilia di un turno elettorale che, pur riguardando solo il 40% degli elettori complessivi, ha assunto un rilievo nazionale di non poco conto. E marginale resterà anche a urne aperte, persino nel caso che dovesse conquistare la Liguria e conservare la Campania oltre che il Veneto. Sì, invece, perché la disgregazione di Forza Italia – cui farà da pendant la resa dei conti dentro il Pd – assumerà, a suo modo, un ruolo strategico nella fase politica nuova che, presumiamo, si aprirà subito dopo le regionali.

Il voto del 31 maggio, infatti, sarà un netto spartiacque, qualunque ne sia il risultato. E Berlusconi, che certo non è più quello di prima ma l’aria la sa ancora fiutare, lo conferma con quella sua penosa uscita “ormai sono fuori dalla politica ma resto per senso di responsabilità”. È evidente il suo mettere le mani avanti rispetto non solo ad un risultato elettorale che lo vedrà perdente quand’anche non fosse un tracollo, ma anche e soprattutto alla marginalità che ne seguirà e che è già iniziata con la fine della breve stagione “nazarena” e la stupida posizione assunta su Mattarella. Solo che dopo le regionali – sia nel caso che Berlusconi prosegua nello stare sull’Aventino, sia che tenti di ricucire la tela strappata del patto con Renzi – il declino sarà certificato con altre diaspore oltre a quella già consumata da Fitto. E non sarà certo l’evocata idea di dar vita all’edizione italica dell’americano partito repubblicano – progetto tanto caliginoso quanto temerario – a consentirgli di uscire dall’angolo. La ricostruzione del centro-destra, di un polo capace di competere con quello di sinistra – tanto più se moderata e ancor più se connotata da un mix di populismo e riformismo, com’è quella di Renzi – richiede volontà, forza, idee, risorse economiche e umane, che oggi Berlusconi non possiede né comunque avrebbe voglia di spendere. Tanto più nel momento in cui, come gli ha spiegato Bossi dandogli del pirla per averla votato, con l’Italicum si cancellano le coalizioni e si mette il Paese nelle condizioni o di scegliere Renzi al primo turno (improbabile, ma lunedì 1 giugno ne sapremo di più) o di andare ad un ballottaggio Renzi-Grillo.

Per questo appare grottesco che qualcuno si chieda chi sarà l’erede di Silvio Berlusconi. Nessuno, ovviamente. Vuoi perché non è un’ipotesi che lui stesso contempli, vuoi perché i leader populistico-carismatici non hanno eredi (e certo il Cavaliere in politica è assomigliato più a Peron che a De Gaulle), vuoi perché, come abbiamo cercato di spiegare, le condizioni non lo consentono. Diverso, invece, è chiedersi se il berlusconismo è in grado di sopravvivere a Berlusconi e a Forza Italia. La nostra risposta al quesito è duplice. Se con quella definizione s’intende ciò che l’intellighentia (ma anche no) di sinistra ha inteso in questi anni, criminalizzando l’uomo – senza capire che così paradossalmente finiva per assolvere il capo del governo – allora il berlusconismo non può che finire con Berlusconi. Ed essendo Berlusconi politicamente finito nel 2011, il suo “ismo” sono già quattro anni che è defunto. Se invece, come noi pensiamo, il berlusconismo identifica i connotati del ventennio chiamato, peraltro impropriamente, Seconda Repubblica, allora esso prescinde dal suo genitore ed è – purtroppo – vivo e vegeto. Senza che Renzi ce ne abbia liberati, anzi.

La politica intesa come schema rigido (maggioritario, bipolarismo), come espressione leaderistica (uomo solo al comando), come disintermediazione dei soggetti sociali e rapporto diretto con l’opinione pubblica, ossessionato dalla continua ricerca e misurazione del consenso (populismo): tutto questo è dal 1992, ed è destinato a rimanere, il tratto saliente non (solo) del berlusconismo, ma del sistema politico italiano. Troppo comodo pensare – l’ha scritto bene Michele Magno su Formiche – che Berlusconi fosse una piaga purulenta sul corpo sano della nazione. Certo, se così fosse basterebbe l’eclissi dell’uomo nero e la crisi verticale di Forza Italia per inaugurare il nuovo rinascimento. Invece, Berlusconi è stato il Paese e l’intero sistema politico si è lasciato connotare secondo le sue regole del gioco. Per questo siamo ancora alle prese con i problemi di sempre e la curva del declino del Paese non è stata minimamente modificata. Dopo le elezioni regionali prossime, però, molti equilibri sono destinati a saltare e molte cose a mettersi in movimento. Ma ne parliamo sabato prossimo, mentre qualcuno di voi avrà l’arduo compito di pensare se e cosa votare.

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