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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Renzi senza coraggio

MENTRE GIOCHIAMO CON L’ITALICUM LA POLITICA ECONOMICA MANCA DI CORAGGIO E LUNGIMIRANZA

25 aprile 2015

In attesa che la stucchevole partita tra Renzi e Bersani su legge elettorale e riforma del Senato ci consegni un presunto vincitore, sarà meglio tornare a buttare un occhio all’economia. A consigliarlo sono le parole usate dalla Banca d’Italia in una recente audizione parlamentare, in cui, pur con la consueta prudenza, non ha sottaciuto alcune riserve alla politica economica del governo. Cosa di per sé rilevante, ma che assume ancora più peso se si pensa che negli ultimi tempi il Governatore Visco era apparso, in alcune uscite, quasi filo-governativo. Vediamo in dettaglio.

La prima riserva riguarda la politica di bilancio. A dispetto della retorica del tesoretto – che, notiamo con piacere nonostante il ritardo, viene ora disconosciuta dal viceministro Morando – Bankitalia ricorda che per centrare l’obiettivo assunto dal governo in sede Ue di contenimento del deficit al 2,6% del pil, occorre trovare circa 8,5 miliardi, e sottolinea che finora l’unica cosa definita è che si tratterà di riduzione della spesa. Come, su quali voci, con quale intensità, si voglia realizzare questo taglio, non è dato sapere. Dunque, è assolutamente improprio parlare di tesoretto da spendere. Mentre è chiaro che se il taglio della spesa arriverà a 10 miliardi ci sarà un margine di 1,5 miliardi da poter usare – speriamo non per populistiche attività benefiche – e se al contrario sarà inferiore agli 8 miliardi e mezzo, rimarrà un buco. Ma è altrettanto chiaro che, volendo, se il coltello nel burro della spesa corrente e improduttiva fosse una volta tanto spinto fino in fondo, si potrebbe creare ben altro tesoretto, magari da usare per una politica che finalmente si ponga sul serio il tema degli investimenti per lo sviluppo. Stesso discorso vale per il debito: non c’è null’altro se non il rinvio agli avanzi primari, via virtuosa ma secolare alla riduzione dello stock. Qui abbiamo l’impressione – a dirlo siamo noi e non Bankitalia, ma abbiamo la presunzione di pensare che a via Nazionale la pensino in modo non difforme – che anche questo esecutivo, come tutti quelli della Seconda Repubblica, creda che immaginare interventi straordinari di riduzione dell’indebitamento pubblico sia catalogabile come politica di austerità fine a se stessa. Invece, sono ben due i motivi per cui andrebbe realizzata. Il primo è che occorre, come dice Bankitalia, “mettere il Paese in sicurezza” rispetto agli umori dei mercati. E che serva, lo dimostra il balzo fatto negli ultimi giorni dallo spread (130 punti) a seguito delle preoccupazioni relative alla Grecia: è bastato poco per risalire rapidamente, a dimostrazione che la situazione non è affatto stabilizzata. Il secondo motivo, a nostra giudizio ancora più importante, è che l’intervento sul debito può essere, a certe condizioni, una misura espansiva e non costrittiva. Per farlo, infatti, c’è un solo modo virtuoso: mettere mano al patrimonio pubblico. E smobilizzarlo significa liberare risorse che possono sia tagliare il debito (per esempio, portandolo sotto il tetto del 100% del pil) sia costituire un pacchetto di investimenti produttivi (diretti e/o indiretti, attraverso il taglio del peso fiscale a carico delle imprese), e quindi finalizzati allo sviluppo. Ma di tutto questo, appunto, neanche l’ombra.

E che per lo sviluppo ci si limiti ad accendere ceri e sperare che le condizioni congiunturali esterne restino per molto tempo così virtuose come lo sono da qualche mese, lo si evince dalle stime sul pil espresse nel Def e dalla critica, pur di sponda, espressa sempre da Bankitalia. Perché quelle previsioni – +0,7% quest’anno, il doppio nel prossimo biennio – sono nello stesso tempo troppo e troppo poco. Troppo, perché appaiono in eccesso rispetto a quelle formulate da organismi internazionali, da ultimo il Fondo Monetario. Troppo poco perché, quand’anche si rivelassero fondate o addirittura sbagliate per difetto – come curiosamente le ha commentate lo stesso governo, che però non dovrebbe indulgere né in ottimismo né in pessimismo, ma indicare stime realistiche, visto che su quelle poggia tutta la sua azione – sarebbero comunque tassi di crescita inadeguati. Infatti, pur in un contesto economico mai così favorevole (euro, tassi e petrolio bassi, liquidità senza limiti), la ripresa in corso è debole, frammentaria e a macchia di leopardo, tanto che il nostro tasso di sviluppo continua ad essere la metà della media europea e le proiezioni dello stesso Def ci dicono che per tornare ai livelli del 2007 (peraltro poverelli) e recuperare il perduto (10 punti di pil, un quarto della produzione industriale, un sesto della capacità manifatturiera, oltre due milioni di posti di lavoro) occorre attendere, se tutto va bene, il 2022. Dunque, piuttosto che annunciare “tesoretti” e studiare elargizioni pre-elettorali, bisognerebbe finalmente imprimere una svolta radicale alla politica economica: tagliare la spesa pubblica improduttiva, ridurre il carico fiscale e portare il debito sotto il 100% del pil, investendo in conto capitale in solidi progetti industriali. Servirebbero 600-700 miliardi e un progetto paese in testa. Basta avere coraggio.

Ora, non sappiamo se il presidente del Consiglio, di fronte a questi rilievi, abbia iscritto la Banca d’Italia, e noi a maggior ragione, d’imperio nel registro dei gufi, ma vorremmo che fosse chiaro che noi non ci sentiamo affatto all’opposizione di questo che continuiamo a ritenere l’unico governo possibile, e non solo per mancanza di serie alternative. Solo che vorremmo da un uomo di rupture come Renzi maggiore coraggio e maggiore lungimiranza.

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